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Tutti i servitori si erano riuniti nell’entrata con le armi in mano. Avevano già controllato il portone per essere certi che fosse ben chiuso. A Rumata tutto questo non piacque. «Forse dovrei restare a casa» pensò. «Al diavolo il principe ereditario».

«Dov’è il barone Pampa?» chiese.

Molto agitato, con la balestra sulla spalla, Uno rispose che il barone aveva dormito fino a mezzogiorno, aveva bevuto tutta l’acqua che c’era e poi se n’era andato a cercare altri divertimenti. Poi disse in tono serio che Kyra aveva chiesto più volte notizie del padrone, ed era preoccupatissima.

«Va bene» disse Rumata, e congedò i servitori.

Senza contare le cuoche avevano in tutto sei servi, di solito affidabili, abituati alle risse di strada. «Naturalmente non si opporrebbero mai ai Grigi» pensò Rumata «perché hanno troppa paura dell’onnipotente ministro delle Forze di Sicurezza; ma potrebbero resistere a quei mascalzoni delle armate notturne, soprattutto perché i banditi si aspetterebbero una facile vittoria». I servitori avevano due balestre, quattro asce da guerra, vari coltelli da macellaio, ed elmetti metallici. Il portone era rinforzato da borchie e sbarre di ferro, secondo le tradizioni locali. O forse sarebbe stato meglio non abbandonare la casa quella notte?

Salì le scale ed entrò in punta di piedi nella stanza di Kyra. La ragazza si era addormentata vestita, rannicchiata sul copriletto. Rumata si chinò su di lei, tenendo una candela in mano. «Devo andare o no? Per una volta vorrei tanto non dover andare».

Le mise addosso una coperta, la baciò sulla guancia e tornò nella propria stanza.

«Devo andare. Qualunque cosa succeda, l’emissario dev’essere sempre sul posto. A vantaggio degli storici sulla Terra». Un sorriso amaro gli attraversò il viso. Si tolse il cerchietto dalla fronte, pulì accuratamente la lente con un panno e se lo rimise. Poi chiamò Uno e gli disse di portargli la veste-corazza e l’elmetto di rame appena lucidato. Rabbrividendo, infilò il busto di metalloplast sulla maglietta, sotto la giubba. L’indumento somigliava a quelli di maglia metallica: quella locale proteggeva dai colpi di pugnale o di spada, ma veniva attraversata facilmente dalle frecce.

Allacciandosi la cintura dell’uniforme, disse a Uno: «Senti, ragazzo mio. Di te mi fido più che di tutti gli altri. Qualunque cosa succeda, Kyra deve restare incolume. Non mi interessa se la casa va a fuoco o se mi rubano tutto quello che ho, ma devi proteggere Kyra. Se necessario fuggite sui tetti o attraverso le cantine, ma sta’ attento a lei, difendila. È chiaro?»

«Sì, signore. Non dovrebbe uscire stasera».

«Ascoltami. Se fra tre giorni non sarò ancora tornato, prendi Kyra e portala nella radura della Foresta del Singhiozzo. Sai dov’è? Bene, là troverai il Covo dell’Ubriaco, una capanna strana non lontana dalla strada. Basta che tu chieda e tutti ti diranno dov’è. Ma sta’ attento a chi chiedi. Là vive un uomo che si chiama Padre Kabani.

Raccontagli tutto. È chiaro?»

«Sì, signore. Ma sarebbe molto meglio se stanotte lei non uscisse».

«Preferirei restare, infatti. Ma è impossibile. Il dovere mi chiama. Sta’ attento, dunque!»

Diede un buffetto sulla guancia al ragazzo e ricambiò con uno sguardo gentile il suo sorriso imbarazzato. A pianterreno incoraggiò i servitori, uscì di casa e scomparve di nuovo nel buio. Sentì dietro di sé che il portone veniva sbarrato.

Normalmente, gli appartamenti del principe non erano sorvegliati molto da vicino.

Era probabile che proprio per questo motivo nessuno avesse mai attentato alla vita dei principi di Arkanar. In particolare, nessuno sembrava interessato al principe attuale.

A nessuno era simpatico quel ragazzo dagli occhi azzurri e malinconici, che somigliava a tutti tranne che a suo padre. Ma a Rumata piaceva. La sua educazione era stata trascurata, perciò la sua immaginazione era rimasta intatta. Non era crudele come gli altri, non sopportava Don Reba (istintivamente, pareva), gli piaceva cantare i versi di Zuren e giocare con le barchette. Rumata aveva ordinato per lui, nella capitale, dei libri illustrati, gli aveva parlato del cielo stellato e si era definitivamente conquistato la sua simpatia raccontandogli favole che parlavano di vascelli volanti. A Rumata, che aveva poche occasioni di stare con i ragazzi, il principino decenne sembrava diversissimo dagli altri abitanti di quel paese selvaggio. Eppure quei bambini innocenti, qualunque fosse il loro ceto, erano gli stessi in cui poi si sviluppavano ignoranza, bestialità e cieca sottomissione alle autorità.

Quei bambini non mostravano alcuna traccia di meschinità. A volte Rumata pensava che non sarebbe stata una cattiva idea se su quel pianeta non ci fossero stati adulti.

Il principe dormiva già. Rumata iniziò la guardia. Insieme all’ufficiale che era venuto a sostituire si avvicinò al letto in cui dormiva il ragazzino ed eseguì delle figure complicate con la spada sguainata, come previsto dall’etichetta di corte. Quindi fece il solito giro, controllando che tutte le finestre fossero sprangate, che le bambinaie fossero ai loro posti e che in tutte le stanze fossero accese le candele. Poi tornò in anticamera, giocò un po’ agli astragali con l’ufficiale che aveva appena smesso il servizio e gli chiese un parere sugli ultimi avvenimenti. L’uomo, personaggio di grandi doti intellettuali, si immerse in profonde riflessioni e poi disse che secondo lui il popolo stava preparandosi alla festa di san Michele.

Quando l’ufficiale se ne fu andato Rumata avvicinò una sedia alla finestra, si sedette comodamente e guardò fuori, Erano in cima a una collina, e durante il giorno la vista sulla città fino all’oceano era stupenda. Ora tutto era immerso nell’oscurità. Si vedevano solo rari grumi di luce dove la gente si era radunata agli incroci aspettando i segnali delle torce degli Sturmovik. La città era addormentata, o fingeva di esserlo.

Sarebbe stato molto interessante sapere se gli abitanti sentivano che stava per succedere qualcosa di terribile. O pensavano, come l’ufficiale di grandi qualità intellettuali, che si trattasse solo dei preparativi per la festa di san Michele? Ventimila uomini e donne. Ventimila fabbri armaioli, macellai, mercanti di stoffe, gioiellieri, casalinghe, prostitute, monaci, cambiavalute, soldati, vagabondi e quei topi di biblioteca che erano stati risparmiati si gettavano sui loro letti puzzolenti di cimici.

Dormivano, facevano l’amore, ripensavano ai profitti della giornata, piangevano, stringevano i denti per la cattiveria o la tristezza…

Ventimila esseri umani! Agli occhi di un osservatore terrestre avevano tutti qualcosa in comune. Probabilmente il fatto che tutti loro, senza eccezione o quasi, non fossero ancora esseri umani nel vero senso della parola, ma piuttosto degli stadi preliminari, blocchi di minerale grezzo dal quale secoli sanguinosi di storia avrebbero forgiato infine uomini liberi e fieri. Erano passivi, avidi e incredibilmente egoisti. Da un punto di vista psicologico erano quasi tutti schiavi: schiavi della fede, di se stessi, delle loro rabbiose passioni e della loro avidità. E se per caso uno di essi era nato con uno spirito nobile, o lo era diventato con gli anni, non sapeva nemmeno che farsene della propria libertà. Si affrettava a diventare di nuovo schiavo: si faceva schiavizzare dalla ricchezza, dal lusso innaturale, dai compagni debosciati e dai suoi stessi schiavi.