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Non si poteva affatto biasimare la maggioranza per questo. La sua schiavitù affondava le radici nella passività e nell’ignoranza. Però la passività e l’ignoranza conducevano di volta in volta alla schiavitù. Se davvero tutti fossero stati il frutto di uno stesso stampo avrebbero passato il tempo a girare i pollici, senza speranza. Ma erano comunque esseri umani, e in loro covava la scintilla dell’intelligenza. E perciò sempre, un po’ qua e un po’ là, brillava la luce di un futuro molto molto lontano ma inevitabile. Avrebbe cominciato a brillare malgrado tutto. Malgrado la loro apparente inettitudine. Malgrado le persecuzioni e le morti senza fine. Anche se venivano picchiati e presi a calci. Anche se nessuno aveva bisogno di loro, ed erano tutti contro di loro. Anche se al massimo potevano contare su una pietà ottusa e condiscendente…

Non capivano che il futuro era davanti a loro, che il futuro era impossibile senza di loro. Non sapevano di essere l’unica vera speranza in un mondo stretto nella morsa di un passato orribile, di essere i fermenti, le vitamine nell’organismo della loro società.

Una volta distrutti questi fermenti, la società avrebbe cominciato a marcire, a decadere, i muscoli si sarebbero afflosciati, la vista si sarebbe indebolita e sarebbero caduti tutti i denti. «Nessuno stato può svilupparsi senza l’aiuto delle scienze.

Verrebbe cancellato dai suoi vicini. Senza l’arte e la cultura uno stato perde la sua capacità di autovalutazione, dà impulso alle scelte sbagliate, genera continuamente ipocriti e mascalzoni, incoraggia il consumismo, crea l’arroganza e alla fine diventa vittima di un vicino più forte. Che le autorità perseguitino pure gli studiosi, ostacolino e impediscano le attività degli scienziati, distruggano le arti: prima o poi i governanti inciamperanno e, battendo il muso, saranno costretti a riaprire le vie tanto odiate dagli ignoranti e dagli stupidi assetati di potere. E per quanto questi Grigi disprezzino la cultura e la conoscenza, alla lunga saranno comunque impotenti di fronte alla necessità oggettiva della storia, possono solo ritardare il cammino del progresso, ma non arrestarlo completamente. E anche se temono e disprezzano le menti colte, alla fine saranno inevitabilmente costretti ad appoggiarle per sopravvivere. Prima o poi dovranno fermarsi di fronte alla necessità di fondare università, di organizzare società scientifiche, di creare centri di ricerca, di costruire osservatori e laboratori, di addestrare nuclei di esperti, di educare uomini con una psiche completamente diversa e con esigenze completamente diverse.

«Queste persone però non possono esistere e non possono operare in un ambiente di avidità banale, di interessi plebei, di autosufficienza ottusa e desideri esclusivamente sensuali. Hanno bisogno di un ambiente nuovo, di un’atmosfera permeata di conoscenza generale e onnicomprensiva, imbevuta di pulsione artistica: hanno bisogno di scrittori, poeti, pittori, compositori… Anche qui i Grigi si troveranno costretti a fare concessioni. Quelli che resisteranno saranno spazzati via da rivali più abili nella lotta per il potere; quelli che non saranno d’accordo su queste concessioni si scaveranno la fossa senza nemmeno accorgersene, inevitabilmente, paradossalmente. Perché gli egoisti ignoranti e fanatici sono condannati, quando la cultura si risveglia tra il popolo, in tutti i campi: dalla ricerca scientifica alla capacità di apprezzare la buona musica. Tutto questo è seguito da un’epoca di vasti sommovimenti sociali, accompagnati da un progresso inimmaginabile della scienza.

Ma insieme all’intellettualizzazione di tutti gli strati sociali nascerà un’era in cui i seguaci dei valori ormai vacillanti riuniranno le loro forze per ingaggiare una battaglia la cui crudeltà rigetterà l’umanità nel Medioevo. Questa lotta fatale vedrà la caduta dei Grigi, per creare una società liberata da tutte le distinzioni di classe e dall’oppressione dell’uomo…» Rumata continuava a osservare la città, un globo pietrificato velato dall’oscurità.

Da qualche parte, in una stanzetta soffocante, c’era Padre Tarra che si contorceva su un misero pagliericcio, tormentato dalla febbre; ma accanto a lui c’era Frate Nanin, seduto a un tavolino, ubriaco, felice e maligno, e stava terminando il suo Trattato sulle voci, il libro in cui ridicolizzava con gusto la vita sotto i Grigi. E da qualche altra parte il poeta Gur camminava lentamente su e giù per le sue stanze vuote e lussuose, accecato dalla disperazione e terrorizzato al pensiero che, malgrado tutto, dagli abissi della sua anima lacerata cercassero di venire alla luce nuovi mondi, mondi nuovi e luminosi che sembravano ancorati a una forza sconosciuta, abitati da esseri umani meravigliosi ed emozioni sconvolgenti. E laggiù passava la notte il dottor Budach, chissà come. Umiliato, messo in ginocchio, battuto, ma ancora vivo…

«Tutti fratelli miei» pensò Rumata. «Io sono uno di voi. Dopotutto siamo della stessa carne!» Improvvisamente fu colpito dal dubbio di non essere affatto un dio che li proteggeva con la sua mano, ma piuttosto un fratello che aiutava un altro fratello o un figlio che correva in soccorso del padre. «Ucciderò Don Reba». «A che scopo?» «Ha sterminato i miei fratelli». «Non sa quello che fa». «Ma sta assassinando il futuro». «È innocente: è figlio del suo tempo». «Vuoi dire che non si rende conto della sua colpa?

Ma che importa se lo capisce o no?». «E Padre Zupik? Cosa non darebbe perché qualcuno uccidesse Don Reba. Adesso non sai cosa dire. Dovrai uccidere molta gente, vero?» «Non so. Forse. Uno dopo l’altro. Tutti quelli che vogliono impedire che il futuro si avveri». «Sempre la stessa storia. Veleno, bombe… Non hanno mai cambiato niente». «Oh, sì, invece. È nata la strategia della rivoluzione». «Cosa t’importa della strategia della rivoluzione? A te importa solo uccidere» «Sì, voglio uccidere». «Sei davvero in grado di farlo?» «Ieri ho provocato la morte di Donna Okana. Sapevo che sarebbe stata uccisa nel momento stesso in cui sono andato a casa sua con una piuma dietro l’orecchio. Mi spiace solo di averla uccisa per niente. Sono quasi riusciti a insegnarmi queste cose, quassù». «Ma è un male. È un problema serio, e pericoloso. Ti ricordi di Sergei Koshin e George Lenni? O di Sabine Krueger?» Rumata si passò la mano sulla fronte madida di sudore. «Sei qui a meditare, a contemplare, a preoccuparti… E riesci solo a tirar fuori spazzatura».

Si alzò in piedi e aprì la finestra. I gruppi di luce sparsi qua e là erano in movimento, spezzati, dispersi, lontani; si muovevano in fila, svanivano dietro edifici invisibili e poi riapparivano. Sulla città si alzava un rombo indefinibile, un frastuono distante fatto di mille voci. Due esplosioni illuminarono i tetti circostanti. Qualcosa era esploso nella zona del porto. Cominciava. Nel giro di poche ore si sarebbe saputo cosa significava l’unione tra le orde Grigie e le armate notturne, questa alleanza innaturale tra i piccoli bottegai e i ladri. E si sarebbe anche saputo cosa aveva ottenuto con questo Don Reba, per quale nuova provocazione aveva brigato, o, per dirla in parole povere, chi doveva morire quella notte. Probabilmente stava per iniziare un’altra notte dei lunghi coltelli, un salasso tra i capi delle orde Grigie e allo stesso tempo la distruzione di quegli sfortunati baroni che si trovavano in città, come anche di quegli aristocratici che davano più fastidio. «Chissà cosa sta facendo Pampa» pensò. «Speriamo non stia dormendo. Solo così potrebbe farcela».

Non c’era più tempo per lasciar correre i pensieri. La porta cominciò a tremare sotto una gragnuola di colpi-Qualcuno gridava: «Aprite! Aprite!» Rumata tirò il chiavistello. Un uomo mezzo svestito, pallido di terrore, afferrò Rumata per la giubba e gridò con voce tremante: «Dov’è il principe? Budach ha avvelenato il Re! Spie irukane hanno iniziato una sommossa in città! Salvate il principe!»

Era il maresciallo del principe, uno stupido, servo ossequioso del suo padrone.