Spinse da parte Rumata e si precipitò nella stanza da letto del ragazzino. Le donne cominciarono a urlare. Intanto, però, dalle porte aperte entrarono gli Sturmovik brandendo le asce da guerra, con i visi sconvolti e madidi di sudore.
«Indietro» disse Rumata, calmissimo.
Dietro di lui, dalla camera da letto, si sentì un grido breve e soffocato. «Siamo nei guai» pensò Rumata. Si nascose in un angolo, barricandosi dietro un tavolo.
Sturmovik ansanti cominciarono a riempire la stanza. Sembravano in tutto una quindicina. Un tenente in uniforme grigia, in prima fila, sollevò il pugnale.
«Don Rumata?» chiese, ansando. «Siete in arresto. Arrendetevi».
«Venite a prendermi!» rispose Rumata, guardando velocemente verso la finestra.
«Prendetelo!» ansimò il tenente.
Quindici uomini ubriachi armati solo di asce non erano un problema per un esperto in tecniche di difesa che là sarebbero state conosciute solo trecento anni più tardi. Il gruppo avanzò e poi indietreggiò di nuovo. Sul pavimento restarono alcune asce; due Sturmovik si contorcevano per il dolore e si premevano sullo stomaco le mani fratturate, inciampando nei compagni alle loro spalle. Rumata sapeva il fatto suo. Gli attaccanti erano accolti da una barriera densa e scintillante creata dalle spade roteanti, e sembrava impossibile penetrare quella difesa d’acciaio. Gli Sturmovik indietreggiarono, guardandosi confusi. Emanavano un lezzo penetrante di birra e di cipolla.
Rumata spostò il tavolo e andò rasente il muro verso la finestra, tenendo sempre d’occhio i soldati. Dalle ultime file partì un coltello, che però mancò il bersaglio.
Rumata rise, mise un piede sul davanzale della finestra e disse: «Provateci un’altra volta e vi taglio le mani. Mi conoscete».
Lo conoscevano. Lo conoscevano bene, e nessuno si mosse, malgrado gli ordini e le bestemmie degli ufficiali, che stavano bene attenti a non correre personalmente nessun rischio. Minacciandoli sempre con le due spade, Rumata si tirò in piedi sul davanzale. In quel momento una lancia che veniva dalla strada sottostante lo colpì alla schiena. L’impatto fu terribile. Anche se l’arma non riuscì a trapassare la corazza di metalloplast, lo fece però cadere dal davanzale, ributtandolo dentro la stanza, sul pavimento. Rumata tenne strette le due spade, ma in quella situazione non potevano essergli di nessun aiuto. La marmaglia si gettò subito su di lui. Tutti insieme dovevano pesare ben più di una tonnellata, ma s’intralciavano a vicenda, permettendogli così di rimettersi in piedi. Con un pugno colpì le labbra umide di qualcuno, un altro si contorceva come un coniglio ferito e Rumata continuava a tirare pugni in tutte le direzioni, a colpirli con i gomiti, le spalle (da molto tempo non si sentiva così agile). Ma non riusciva a respingerli. Trascinando dietro di sé una fila di corpi arrivò fino alla porta, dove finalmente si liberò degli uomini che gli avevano infilato le unghie nelle gambe. Poi sentì un colpo violento e doloroso nella schiena e cadde all’indietro. Alcuni Sturmovik cercavano di districarsi sotto di lui. Riuscì di nuovo a rimettersi in piedi, tirando brevi colpi che gettavano contro i muri i soldati che scalciavano disperatamente. Per un attimo vide il viso butterato del tenente sopra di sé, mentre si chinava sopra la sua balestra scarica, quando improvvisamente la porta cedette e nella stanza si riversò un’altra folla di visi sudati e ghignanti. Gli gettarono addosso una rete, gliela avvolsero intorno ai piedi e lo trascinarono per terra.
Smise di resistere per conservare le forze. Per un po’ lo presero a calci, silenziosamente, accanitamente, ansando di gioia. Poi lo afferrarono per le caviglie e lo trascinarono via. Passando davanti alla porta aperta della stanza da letto Rumata vide il maresciallo del principe inchiodato al muro da una lancia, e un mucchio di lenzuola insanguinate sul letto. «Ecco come va a finire… Povero ragazzo». Lo trascinarono giù per le scale, e perse i sensi.
Capitolo VII
Disteso su una collina erbosa, guardava le nuvole che salpavano nel cielo alto e azzurro. Si sentiva tranquillo, ma sulla collina sedeva accanto a lui l’incarnazione del dolore più lancinante. Il dolore era esteriorizzato, eppure lo sentiva anche dentro di sé, soprattutto nel fianco sinistro e nella nuca. «Ha tirato le cuoia, vero? Vi taglierò la testa!» Poi un fiotto di acqua gelata gli piovve addosso dal cielo. Infatti era disteso sulla schiena e guardava il cielo: non da una collina erbosa, ma da dentro una pozza d’acqua. Il cielo non era azzurro, ma grigio e plumbeo, striato di rosso. «Niente affatto» disse un’altra voce. «È vivo. Strizza le palpebre».
«Sono io» pensò. «Stanno parlando di me. Sono io che strizzo le palpebre. Cosa sono queste sciocchezze? Non sono capaci di parlare come si deve?» Qualcuno si mosse e colpì l’acqua con un oggetto pesante. Sul cielo apparve il profilo nero di una testa con un berretto piatto.
«Che ne dice, signore, riesce a camminare da solo o devo farla trasportare?»
«Slegatemi le gambe!» disse bruscamente Rumata, e immediatamente sentì una fitta bruciante nelle labbra livide. Vi passò sopra la lingua. «Più che labbra» pensò «sembrano una frittata».
Qualcuno si attaccò ai suoi piedi e cominciò a tirarli e spingerli senza tante cerimonie. Alcune persone stavano parlando sottovoce.
«Lo avete ridotto piuttosto male».
«È stato necessario, stava quasi per sfuggirci… E un demonio, le frecce rimbalzano su di lui…»
«Una volta ho conosciuto un uomo: potevi spaccargli un’ascia addosso e non batteva ciglio».
«Un contadino, probabilmente».
«Chiaro».
«E con questo? Lui è un nobile».
«Al diavolo! Guarda come hanno stretto i nodi! Neanche san Michele riuscirebbe a slegarlo! Passami una torcia».
«Meglio usare un coltello».
«Ehi, ragazzi, lasciatelo legato. Se no ricomincerà a darcele. Mi ha quasi spaccato la testa».
«No, no, non farà niente».
«Gli altri possono dire quello che vogliono, camerati, ma io l’ho colpito con la lancia. Gli ha trapassato la corazza».
Una voce echeggiò perentoria nell’oscurità.
«Volete smetterla?»
Rumata ora si sentiva le gambe libere. Le distese e cercò di alzarsi in piedi, ma ricadde subito. Alcuni Sturmovik accucciati per terra l’osservarono in silenzio mentre barcollava nella pozzanghera fangosa. Il giovane digrignò i denti per la rabbia e l’umiliazione. Tirò indietro le scapole: aveva le mani legate e rigirate sulla schiena, ma così strettamente che non riusciva a capire dove fossero le palme e dove i gomiti.
Raccolse tutte le forze e le tirò violentemente verso l’alto, ma si piegò subito in due per il dolore. Gli Sturmovik scoppiarono a ridere.
«Così non scappa di certo» disse uno.
«Sembra un po’ stanco. Ehi, dormi in piedi?»
«Ehi, signore, non è divertente, vero?»
«Silenzio! Smettetela con queste idiozie!» disse la voce imperiosamente. «Venite qui, Don Rumata!»
Rumata si sforzò di stare in piedi e si diresse verso la voce. Si sentiva barcollare.
Da qualche parte spuntò un uomo con una torcia in mano che gli fece strada. Rumata capì dov’era: uno degli innumerevoli cortili interni del ministero della Sicurezza, vicino alle scuderie reali.
Rifletté velocemente: «Se mi portano a destra significa la Torre, le segrete. A sinistra, invece, ci sono gli uffici del ministero». Scosse la testa. «Che importa» pensò.
«Sono ancora vivo. Ce la farò…» Girarono a sinistra.
«Almeno non subito» pensò Rumata. «Prima l’interrogatorio, il contraddittorio.
Terribile. In questo caso, di cosa potrebbero accusarmi? È abbastanza ovvio. Di aver istigato il prigioniero Budach ad avvelenare il Re, di aver cospirato e complottato contro la corona. Forse anche di aver assassinato il principe. E naturalmente di aver fatto la spia per gli irukani, i soaniani, i barbari, i baroni, il Sacro Ordine, eccetera.