«Bene, signori, ci siamo…» fu tutto quello che riuscì a dire. Poi tre uomini sbucarono dalle tende, con grande sorpresa di Rumata: erano le ultime persone al mondo che si sarebbe aspettato di vedere. Sembrava che Padre Zupik stesse pensando la stessa cosa. I tre erano massicci, portavano un saio nero da monaci e avevano il cappuccio abbassato sugli occhi. Veloci e silenziosi, si gettarono su Padre Zupik e lo afferrarono per i gomiti.
«Che il diavolo vi porti!» farfugliò. Sul suo viso si dipinse un pallore mortale. Era indubbio che si aspettava tutt’altro.
«Che ne dice, Frate Aba?» chiese calmo Don Reba, chinandosi leggermente verso il grassone.
«Magnifico!» rispose lui risolutamente. «Sì, magnifico!»
Don Reba fece un cenno con la mano. I monaci sollevarono Padre Zupik di peso e lo portarono via, scomparendo silenziosi dietro la tenda. Rumata fece una smorfia di disgusto. Frate Aba si fregò le mani e disse con foga: «È andata magnificamente. Vero, Don Reba?»
«Sì, non male» annuì lui. «Ma adesso continuiamo. Allora. Quanti anni ha, Don Rumata?»
«Trentacinque».
«Da quanto tempo vive ad Arkanar?»
«Da cinque anni».
«Da dove proviene?»
«Sono sempre vissuto a Estor, nella sede avita della mia famiglia».
«Perché ha cambiato residenza?»
«Sgradevoli circostanze mi hanno obbligato a lasciare Estor. Cercavo una città che potesse rivaleggiare con lo splendore della nostra capitale». Finalmente cominciò a sentire un formicolio insopportabile al braccio. Con molta pazienza, continuò a massaggiarsi.
«Che genere di circostanze?» chiese Don Reba.
«Ho ucciso in duello un membro della casa imperiale».
«Oh? Chi?»
«Il giovane Duca Ekin».
«E il motivo di questo duello?»
«Una donna» rispose seccamente Rumata.
Lentamente cominciava a sospettare che tutte quelle domande in realtà non significassero nulla. Che facessero parte del gioco proprio come la consultazione a proposito del tipo di esecuzione.
«Tutti e tre stiamo aspettando qualcosa. Io sto aspettando di ritrovare l’uso delle mani. Quell’imbecille di Frate Aba sta aspettando che gli rovesci in grembo tutto l’oro del tesoro dei Rumata. Anche Don Reba sta aspettando. Ma i monaci, i monaci?
Come sono riusciti ad arrivare a corte? Soprattutto degli elementi così abili e svelti…» «Come si chiamava la donna?»
«Oh, queste domande» pensò Rumata. «Sarebbe difficile mettere insieme qualcosa di più insensato. Cercherò di sviarli un po’«.
«Donna Rita» rispose.
«Non pensavo che mi avrebbe risposto. Grazie».
«Sempre al vostro servizio».
Don Reba chinò leggermente la testa. «È mai stato a Irukan?»
«No».
«Ne è sicuro?»
«E lei?»
«Vogliamo la verità!» disse Don Reba, in tono didattico, Frate Aba annuì incerto.
«Soltanto la verità».
«Aha!» esclamò Rumata. «Io invece avevo l’impressione che…» Tacque. Poi: «…che voi foste interessati soprattutto a mettere le mani sul mio patrimonio. Ma non riesco proprio a immaginare come possiate riuscirci, Don Reba!»
«Che ne dite di una donazione? Sì, una donazione!» gridò Frate Aba.
Rumata rise con disprezzo.
«Lei è un idiota, Frate Aba, o qualunque sia il suo nome. Si vede lontano un miglio che lei è solo un piccolo, miserabile bottegaio. Forse non è al corrente del fatto che il diritto di primogenitura non è trasferibile ad altri?»
Era chiaro che il grassone stava per esplodere. Ma riuscì a controllarsi.
«Non ha il diritto di parlare con questo tono» disse Don Reba con gentilezza.
«Volete la verità?» continuò Rumata. «Eccola, la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità: Frate Aba è un idiota e un meschino bottegaio».
Intanto, Frate Aba aveva recuperato la calma.
«Mi sembra che lei non si attenga al punto» disse sorridendo. «Cosa ne pensa, Don Reba?»
«Ha ragione, come sempre» rispose lui. «Mio nobile signore, è mai stato a Soan?»
«Sì».
«Perché?»
«Per frequentare l’Accademia delle Scienze».
«Strana occupazione per un giovane della vostra condizione».
«È quello che penso anch’io».
«Ed è in buoni rapporti con il giudice supremo di Soan, Don Kondor?»
Rumata cominciò a diventare sospettoso; la cosa puzzava.
«È un vecchio amico di famiglia».
«Un uomo di grande valore, no?».
«Una persona stimabilissima».
«È al corrente del fatto che Don Kondor fa parte della cospirazione contro Sua Maestà il Re?»
Rumata sporse impercettibilmente il mento.
«Prima lavate i vostri panni sporchi, Don Reba» disse altezzosamente. «Per quanto riguarda noi, la vecchia nobiltà della capitale, tutti questi soaniani e irukani, così come gli arkanariani, sono e saranno soltanto vassalli della corona imperiale!»
Incrociò le gambe e si voltò.
Don Reba l’osservò pensosamente.
«Lei è ricco, Don Rumata?»
«Potrei comprare tutta Arkanar, se solo mi saltasse in mente di farlo. Ma la spazzatura non mi interessa».
Il ministro respirò profondamente.
«Il cuore mi sanguina» disse «al pensiero di essere costretto a recidere un ramo tanto insigne di un lignaggio così famoso e nobile. Sarebbe quasi un delitto, se non fossi spinto a farlo per tutelare gli interessi dello Stato».
«Non si preoccupi tanto degli interessi dello Stato. Salvate la pelle, piuttosto» disse Rumata.
«Ha ragione» rispose Don Reba, e schioccò le dita.
Rumata contraeva e rilasciava i muscoli alternativamente. Il suo corpo apparentemente funzionava di nuovo. Da dietro le tende sbucarono di nuovo tre monaci, con la stessa incredibile abilità che rivelava una grande esperienza.
Circondarono Frate Aba, che continuava a sorridere, e gli afferrarono le braccia, torcendogliele dietro la schiena.
«Ahhh!» urlò lui, con il viso tondo contratto dal dolore.
«Svelti, sbarazzatevene!» ordinò Don Reba.
Il grassone resisteva furiosamente agli uomini che lo trascinavano dietro le tende.
Lo si sentiva urlare e gemere. Poi improvvisamente emise un grido con una voce strana, irriconoscibile, e finalmente tutto tornò tranquillo.
Don Reba si alzò e scaricò cautamente la balestra. Rumata, perplesso, seguiva con gli occhi i suoi movimenti. Don Reba cominciò a camminare su e giù, lentamente, come perso in profonde riflessioni, grattandosi la schiena con la freccia.
«Bene, bene» mormorò, quasi con tenerezza, «perfetto…» Sembrava essersi completamente dimenticato della presenza di Rumata. Continuò a camminare sempre più veloce, facendo roteare la freccia. Poi si fermò di colpo accanto alla scrivania, gettò via la freccia, si sedette, sorrise improvvisamente e disse: «Bene, che ne dite? Nessuno dei due si è difeso molto. Non credo che con voi sarà così facile».
«Già» disse Rumata pensosamente.
«Va bene, allora. Adesso facciamo quattro chiacchiere, Don Rumata. O lei non è Rumata? E forse neppure don? Cosa ne dice?»
Rumata tacque e l’osservò attentamente. L’uomo era pallido, e sul naso aveva delle venuzze rosse. Tremava quasi per l’emozione, come se fosse stato sul punto di applaudire, gridando: «Lo sapevo! Lo sapevo!» «Non sai un bel niente, cane» pensò Rumata. «E anche se scoprissi qualcosa, non ci crederesti mai. Avanti, parla. Ti sto ascoltando».
«Sto ascoltando» disse Rumata.
«Non è affatto Don Rumata» spiegò Don Reba. «Lei è un usurpatore». Lo guardò seriamente negli occhi. «Rumata di Estor è morto cinque anni fa, ed è stato seppellito nella cripta di famiglia. I santi da allora hanno calmato la sua anima ribelle e, con tutto il rispetto, non molto pura. Allora? Confessa o le serve un aiuto?»