‘«…Alla fine dell’anno della Grande Acqua, anno X della nuova era, i processi centrifughi guadagnarono rapidamente terreno nel vecchio impero. Avvantaggiandosi di questo, il Sacro Ordine, che rappresentava gli interessi dei gruppi più reazionari della società feudale e che cercava in tutti i modi di porre un freno alla decadenza generale…’ Ma hai mai sentito il puzzo dei cadaveri bruciati sul rogo? Sai com’è? Hai mai visto una donna nuda rotolarsi con il ventre squarciato nella polvere della strada?
Hai mai visto città dove gli esseri umani tacciono e si sentono solo i corvi?» Urtò con il petto in qualcosa di duro e appuntito. Alzò lo sguardo e vide davanti a sé un cavaliere nero. Una lunga lancia con la lama larga e finemente seghettata era premuta contro le sue costole. Il cavaliere lo guardava silenzioso da dietro le fessure del suo cappuccio nero, che rivelava solo una bocca dalle labbra sottili e un mento sfuggente. «Devo fare qualcosa» si disse Rumata. «Ma cosa? Disarcionarlo? No». Il cavaliere ritrasse lentamente il braccio destro, puntando la lancia. Il gesto fece venire in mente a Rumata che cosa doveva fare. Alzò casualmente la mano sinistra, tirando indietro la manica. Apparve un braccialetto di ferro. Gli era stato dato prima che lasciasse il palazzo. Il cavaliere esaminò il braccialetto, abbassò l’arma e si spostò per farlo passare. «In nome del Signore» disse con uno strano accento. «Benedetto sia il Suo nome» mormorò Rumata. Un po’ più in là c’era un altro cavaliere, occupato ad abbattere dall’orlo di un tetto una serie di figurine scolpite che rappresentavano dei demoni. Al secondo piano, un viso grasso e distorto dal terrore sbirciava dalle persiane semichiuse. Era probabilmente uno di quei bottegai che solo tre giorni prima avevano urlato entusiastici urrà per Don Reba, brindando con un boccale di birra e ascoltando con piacere il rumore degli scarponi chiodati dei soldati Grigi sul selciato.
«Oh, Grigi, Grigi…» Rumata distolse lo sguardo.
«Ma che starà succedendo a casa?» gli venne di colpo in mente, e cominciò ad affrettare il passo, mettendosi quasi a correre nell’ultimo tratto di strada. La casa era intatta. Due monaci erano seduti sotto il portico. Avevano tirato indietro i cappucci, esponendo al sole le loro teste mal rasate. Appena lo videro scattarono in piedi. «In nome del Signore» dissero all’unisono. «Benedetto sia il Suo nome» rispose Rumata, e chiese: «Che cosa ci fate qui?» Entrambi s’inchinarono e piegarono il braccio sullo stomaco. «Adesso che siete arrivato possiamo andare» disse uno dei due. Scesero i gradini e si allontanarono, nascondendo nelle lunghe maniche le braccia incrociate.
Rumata li seguì con lo sguardo, ricordando le migliaia di volte in cui aveva visto quelle umili figure camminare per strada nei loro lunghi abiti neri. Ma allora non trascinavano dietro di sé i foderi delle spade. «Su questo ci siamo sbagliati» pensò.
«Che bel passatempo era stato per i gentiluomini accodarsi a qualche monaco solitario che camminava per la strada e raccontarsi storielle oscene proprio sotto il suo naso. Stupido che sono. Facevo finta di essere ubriaco e camminavo dietro di loro, ridendo di gioia perché il paese, se non altro, era immune dal fanatismo religioso. Ma che altro avremmo dovuto fare? Davvero, che altro avremmo dovuto fare?» «Chi è?» chiese una voce.
«Apri, Muga, sono io» disse piano Rumata.
I chiavistelli scattarono. La porta si aprì leggermente e Rumata s’infilò nella stretta fessura. Nell’atrio tutto era come al solito, e Rumata tirò un sospiro di sollievo. Il vecchio Muga con i capelli argentei e la testa perennemente tremolante prese l’elmetto e le spade del padrone.
«Come sta Kyra?»
«Kyra è di sopra. Sta bene».
«Magnifico» disse Rumata slacciandosi la cintura. «E dov’è Uno? Perché non è qui ad accogliermi?» Muga prese la cintura.
«Uno è morto» disse con voce calma e decisa. «È nelle stanze della servitù».
Rumata chiuse gli occhi.
«Uno è morto…» ripeté. «Chi l’ha ucciso?»
Senza aspettare la risposta, andò a vedere. Il cadavere di Uno era disteso sul tavolo.
Era coperto da un lenzuolo fino alla vita. Aveva le mani piegate sul petto, gli occhi spalancati e la bocca distorta in una smorfia. I servitori erano radunati intorno al tavolo, a capo chino, e ascoltavano i mormorii del monaco che pregava in un angolo.
La cuoca singhiozzava. Senza distogliere lo sguardo dal ragazzo, Rumata si sbottonò il colletto.
«Cani maledetti!» esclamò. «Bestie schifose!»
Inciampando in qualcosa si avvicinò al tavolo, guardò quegli occhi senza vita, alzò leggermente il lenzuolo e lo lasciò ricadere subito.
«Sì, troppo tardi» disse. «Troppo tardi. Bastardi! Chi l’ha ucciso? I monaci?»
Si voltò verso il monaco, lo afferrò per la collottola, lo gettò a terra e si chinò sul suo viso.
«Chi l’ha ucciso?» chiese. «È stato uno di voi? Parla!»
«No, non i monaci» disse una voce calma dietro di lui. «Sono stati i soldati Grigi».
Rumata guardò per un momento il viso emaciato del monaco, le cui pupille cominciavano lentamente a dilatarsi. «In nome del Signore» piagnucolò. Rumata lo lasciò andare, si sedette su una panca ai piedi del cadavere e cominciò a piangere. Si coprì il viso con le mani, e ascoltò la voce quieta e monotona di Muga. Il vecchio disse che, poco dopo la seconda veglia, avevano sentito bussare al portone. Uno aveva gridato di non aprire, ma erano stati costretti a farlo quando i soldati Grigi avevano minacciato di incendiare la casa. Erano entrati a forza, avevano picchiato e legato i servi, poi avevano salito le scale. Uno faceva la guardia di sopra. Il ragazzo aveva cominciato a tirare con la balestra. Aveva due colpi e li aveva tirati entrambi.
La seconda freccia aveva mancato il bersaglio. I Grigi avevano lanciato i coltelli e Uno era caduto. Lo avevano trascinato giù dalle scale e stavano già per prenderlo a calci e colpirlo con le mannaie, quando, improvvisamente, erano entrati in casa i monaci neri. Avevano ucciso due Grigi e disarmato gli altri, quindi avevano legato loro delle corde intorno al collo e li avevano trascinati in strada.
Muga tacque. Ma Rumata restava seduto con i gomiti appoggiati sul tavolo davanti ai piedi del ragazzo morto. Si alzò lentamente, si asciugò gli occhi con la manica, baciò la fronte fredda del giovane. Poi salì di sopra, facendo un passo dopo l’altro con uno sforzo enorme.
Non si reggeva in piedi per la fatica e la debolezza. Si sforzò di arrivare al pianerottolo e attraversò la stanza degli ospiti per andare al suo letto. Cadde a faccia in giù sul cuscino con un gemito. Kyra accorse, ma lui era così distrutto da non riuscire neppure ad aiutarla a togliergli i vestiti sporchi. La ragazza gli sfilò gli stivali, pianse vedendo il suo viso martoriato, gli levò l’uniforme e la maglia di metalloplast e continuò a piangere silenziosamente sul suo corpo pieno di lividi. Ora, improvvisamente, lui sentì che gli facevano male le ossa, come se lo avessero messo sulla ruota di tortura. Mentre Kyra gli passava una spugna inzuppata d’acqua e aceto, Rumata ansimava e sibilava, con gli occhi chiusi: «Avrei potuto ucciderlo… Mi stava proprio di fronte… Strozzarlo con le mie mani… È vita questa, Kyra? Andiamocene da qui… In fondo l’esperimento lo stanno facendo su di me, non su di loro…» Non si rese neppure conto di parlare nella sua lingua originaria. Kyra lo guardò ansiosamente con gli occhi lucidi di lacrime e gli tempestò le guance di baci. Dopo averlo coperto con le lenzuola rammendate (Uno non ne aveva comprate di nuove nonostante gli ordini del padrone), Kyra corse di sotto a preparargli del vin brulé.