Gemendo per il dolore fisico e psichico, Rumata scese dal letto e si trascinò nello studio. Aprì un cassetto segreto nella scrivania, frugò nel contenitore delle medicine e prese alcune pastiglie di Sporamina. Quando Kyra ritornò con un bricco fumante su un vassoio d’argento, era già tornato a letto. Sentì che il dolore lo abbandonava, che il ronzio nelle orecchie si affievoliva, e che il corpo recuperava le forze. Bevve tutto il contenuto del bricco e presto si sentì meglio. Poi chiamò Muga e gli disse di far preparare i suoi vestiti.
«Non andare, Rumata» disse Kyra. «Non andare! Resta a casa!»
«Devo andare, cara!»
«Ho paura. Resta qui… Ti uccideranno!»
«Non dire così. Perché dovrebbero uccidermi? Hanno tutti paura di me, no?»
Lei ricominciò a piangere, ma silenziosamente, come per timore di dargli fastidio.
Rumata la fece appoggiare sul suo grembo e le accarezzò dolcemente i capelli.
«Il peggio è passato» disse. «E ricordati che ce ne andremo…»
Lei si calmò e si strinse a lui. Muga aspettava paziente, tenendo in mano i pantaloni di Rumata ornati di campanelli d’oro.
«Ma prima di andarcene, ho molto da fare» continuò Rumata. «Stanotte sono stati uccisi a migliaia. Devo scoprire chi è ancora vivo e chi è stato ammazzato. E devo aiutare chi è ancora in pericolo».
«E chi aiuterà te?»
«Fortunato l’uomo che pensa solo agli altri… E inoltre, qualcuno molto potente verrà in nostro soccorso, se necessario».
«Non riesco a pensare agli altri. Sei tornato a casa più morto che vivo. Lo vedo con i miei occhi come ti hanno picchiato. E Uno è stato ucciso. Dov’era questa potenza quando ne avevi bisogno? Perché non ha impedito tutti questi massacri? Io non ti credo… Non ti credo…»
Kyra cercò di liberarsi dal suo abbraccio, ma lui la tenne stretta.
«E stata solo sfortuna» le disse. «Questa volta sono arrivati un po’ troppo tardi. Ma adesso ci stanno guardando di nuovo e ci proteggeranno. Perché oggi non mi credi?
Mi hai sempre creduto. Non lo vedi da te? Sono tornato a casa mezzo morto, e adesso guardami!»
«Non ho voglia di guardarti» disse lei, nascondendosi il viso. «Non voglio ricominciare a piangere».
«Su, su! Per questi graffi? Non è niente! Adesso il peggio è passato… Almeno per noi due. Ma ci sono persone perbene per le quali non è così. E devo aiutarle».
Lei sospirò, lo baciò sul collo e si liberò piano dal suo abbraccio. «Torna stanotte»
lo implorò. «Tornerai?»
«Puoi contarci» rispose con sicurezza. Sorrise. «Sarò a casa prima che faccia notte, e molto probabilmente non da solo. Sarò di ritorno per cena».
Kyra andò verso una poltrona, si sedette, si abbracciò un ginocchio con le mani e stette a guardare Rumata che si vestiva. Mentre si infilava i pantaloni questi parlava tra sé nella sua lingua originaria. Muga era seduto per terra a gambe incrociate davanti a lui, e cominciò ad allacciargli i bottoni e le fibbiette. Rumata indossò una maglietta pulita sotto la maglia di metalloplast. Infine disse, con tono disperato: «Cara, ti prego, cerca di capire! Devo andare! Che cosa posso fare? È fuori discussione che io rimanga qui!»
Improvvisamente lei disse, pensosa: «Qualche volta mi domando perché non mi picchi mai».
Rumata stava abbottonandosi la camicia di pizzo. Si fermò, raggelato.
«Cosa vuoi dire?» le chiese, perplesso. «Come si potrebbe pensare di picchiarti?»
«Tu non sei solo un uomo buono, molto buono» continuò Kyra senza ascoltarlo «sei anche un uomo molto strano, sembri quasi un arcangelo. Quando sei con me mi sento fortissima. Adesso, per esempio, sono forte. Una volta o l’altra te lo chiederò.
Un giorno mi parlerai di te? Non ora, solo quando tutto questo sarà finito. Lo farai per me?»
Rumata tacque a lungo. Muga gli porse la giacca arancione con i nastri rossi. Lui l’indossò con fastidio e allacciò la cintura.
«Sì» disse poi. «Un giorno ti racconterò tutto».
«Aspetterò» rispose lei seriamente. «Ma adesso devi andare. Non farti trattenere da me».
Rumata si avvicinò e premette teneramente le labbra livide sulle sue. Poi si tolse dal polso il braccialetto di ferro e glielo diede.
«Mettitelo a1 polso sinistro. Non credo che oggi verranno a trovarci di nuovo… Ma nel caso si facciano vivi mostra loro questo braccialetto».
Lei lo seguì con lo sguardo e Rumata sentì che lo stava chiamando in silenzio. «So che sta pensando: ‘Non so chi sei, forse il diavolo, forse il Figlio di Dio, forse un uomo che viene da mondi leggendari al di là dei mari, ma una cosa è certa: se non ritorni, morirò’«.
Le fu grato per il suo silenzio, perché doverla lasciare era stranamente difficile.
Come gettarsi a capofitto da un mare limpido di smeraldo in una pozzanghera.
Capitolo VIII
Rumata decise di non andare direttamente negli uffici di Don Reba di Arkanar.
Strisciò di soppiatto lungo i cortili, si nascose dietro file di stracci appesi ad asciugare, si infilò dentro i buchi nelle palizzate, impigliandosi con i nastri e i preziosi pizzi di Soan nei chiodi arrugginiti, e camminò a quattro zampe tra i mucchi di patate. Ma nonostante tutti gli sforzi non riuscì a eludere l’occhio vigile dei monaci neri. Girando in un vicolo stretto che portava alla discarica, ne incontrò due, cupi e ubriachi.
Cercò di evitarli, ma i monaci sguainarono le spade e gli bloccarono il passaggio.
Mentre anche lui afferrava le spade, i monaci fischiarono per chiamare rinforzi.
Rumata stava per ritornare nel buco della palizzata da cui era uscito, quando un omino agile dal viso insignificante corse verso di lui. Urtò contro la spalla di Rumata, si precipitò verso i monaci e sussurrò loro qualcosa, al che i due sollevarono le vesti, scoprendo i nastri lilla avvolti intorno alle gambe, e se ne andarono, sparendo presto dietro alcune case. L’omino li seguì senza voltarsi.
«Così va la faccenda» pensò Rumata. «Una spia, una guardia del corpo. E non si cura neppure di fare il suo lavoro di nascosto. Il nostro nuovo vescovo pensa davvero a tutto. Sarebbe interessante sapere se ha paura di me o per me». Seguendo con lo sguardo la spia, Rumata andò verso la discarica, che portava al retro degli edifici dell’ex ministero della Sicurezza Interna. Sperava che non ci fosse nessuno di guardia.
Il vicolo era deserto. Non si vedeva anima viva. Ma subito sentì lo scricchiolio delle persiane, delle porte aperte e richiuse, un neonato che piangeva e un mormorio ansioso che avvolgeva tutto. Da dietro una staccionata cadente sbucò un viso emaciato, annerito da strati di sporcizia. Due occhi vuoti spaventati guardarono Rumata.
«Le chiedo scusa, nobile signore; mi perdoni, la prego. Forse il nobile signore potrebbe dirmi cosa sta succedendo in città? Sono Kickus il fabbro, detto anche lo Zoppo. Vorrei andare alla mia forgia, ma ho paura…»