«Ehi, ehi» gridava l’ufficiale, sempre con la stessa voce monotona. «Il motivo…»
«In nome del Signore» disse Rumata con enfasi significativa, senza voltarsi.
L’ufficiale e Frate Tibak si alzarono subito in piedi e risposero confusi: «Nel Suo nome!» La gente in coda guardava ammirata e invidiosa Rumata che si allontanava.
Rumata uscì dalla cancelleria e andò verso la Torre della Gioia, facendo tintinnare allegramente i cerchietti di ferro. Si accorse di aver preso nove braccialetti, ma che al polso sinistro ce ne stavano solo cinque, così infilò gli altri quattro al destro. «È così che il vescovo di Arkanar voleva sbarazzarsi di me» pensò. «Be’, ha sbagliato persona!» I braccialetti di metallo tintinnavano a ogni passo, e Rumata teneva in mano un pezzo di carta dall’aria importante, il modulo 6/17/11, decorato da bolli multicolori. I monaci che camminavano o cavalcavano per strada lo evitavano accuratamente. Ogni tanto scorgeva tra la folla la sua spia e guardia del corpo, che si teneva sempre a rispettosa distanza. Rumata arrivò al cancello della Torre della Gioia. Fece tintinnare minacciosamente le spade davanti alla guardia che allungava il collo con curiosità, ma che si ritirò subito. Rumata attraversò il cortile e scese, nella semioscurità interrotta solo dal bagliore di rozze lampade a olio, gli scalini consunti e scivolosi. Era l’entrata del sancta sanctorum dell’ex ministro della Sicurezza Interna, la prigione reale con le sale di tortura.
Ogni dieci passi, lungo il corridoio a volta, c’era una torcia puzzolente fissata a un sostegno arrugginito. Sotto ogni torcia c’era una nicchia simile a una caverna, che terminava in una porta nera con una finestrella provvista di sbarre. Era l’entrata delle celle. All’esterno le porte erano sprangate da pesanti chiavistelli. I corridoi brulicavano di gente che si urtava, correva avanti e indietro, gridava, cercava di dare ordini. I chiavistelli sferragliavano e sbattevano, le porte venivano aperte e chiuse, qualcuno veniva picchiato e urlava di dolore, un altro cercava disperatamente di aggrapparsi alle grate mentre lo trascinavano via, un prigioniero veniva spinto in una cella già sovraffollata, e un altro condannato, che alcuni uomini cercavano di trascinare fuori da una cella, si stringeva a un compagno gridando. I visi dei monaci erano pieni di zelo. Andavano tutti di fretta, tutti svolgevano mansioni importantissime per lo Stato. Rumata decise di scoprire che cosa stava succedendo là dentro. Si aggirò indisturbato in vari corridoi, scendendo sempre di più. I piani inferiori erano un po’ più calmi. Basandosi sulle indiscrezioni che aveva captato, era lì che venivano esaminati i diplomati alla Scuola dei Patrioti. Vestiti solo di pantaloni di cuoio, i ragazzi stavano in piedi davanti alle porte delle sale di tortura, sfogliavano vecchi manuali unti e ogni tanto andavano a bere un po’ d’acqua da una tinozza servendosi di una coppa legata al muro con una catena. Dalle stanze provenivano grida orribili, il rumore delle frustate e l’odore inconfondibile della carne bruciata. E i loro discorsi! Oh, quei discorsi!
«Sai, la ruota ha una vite in cima, che si era consumata ed era caduta. È colpa mia, dico io? Mi ha fatto frustare per questo. ‘Schifoso, porco’ mi ha detto. ‘Imbecille, vai a farti dare cinque frustate sul sedere nudo. Poi torna qui’«.
«Se solo riuscissimo a scoprire chi è che dà le frustate. Forse è uno di noi, uno studente. Potremmo alleggerirgli la mano, basterebbe qualche moneta di rame…» «Quando si ha sottomano un grassone, le spine non gli lasciano segni nella carne.
La cosa migliore è prendere un paio di chiodi incandescenti e spingergli via un po’ di lardo…» «Sì, ma le catene di Dio servono solo per torturare le gambe, e i guanti del martire, quelli con i chiodi, servono per le mani, ti ricordi?» «Fratelli, sono quasi scoppiato, ho riso tanto! Entro per dare un’occhiata, e chi ti vedo? Fika il rosso, il macellaio del mio quartiere che mi tirava sempre le orecchie quando era ubriaco. Adesso tocca a me, mi sono detto, aspetta un po’…» «E Pekor, quello con le labbra grosse, è stato portato via dai monaci stamattina.
Non è ancora tornato. Non si è visto neanche all’esame».
«Dovevo lavorare al tritacarne, ma per caso ho preso l’uomo di fianco. Be’, si sono rotte un po’ di costole, e allora? Avreste dovuto vedere Padre Kin! Mi prende per i capelli e mi dà dei calci con gli scarponi. Ragazzi, che mira! Ho visto le stelle! ‘Che ti salta in mente?’ mi grida. ‘Stai danneggiando le proprietà!’««Date un’occhiata, amici» pensò Rumata, girando lentamente la testa per inquadrare tutta la scena. «Venite a vedere. Qui non si tratta solo di teorie: sulla Terra non si è mai visto niente di simile. Guardate, ascoltate, registrate tutto! E imparate ad apprezzare e ad amare la nostra vita sulla Terra, maledizione, inchinatevi per onorare la memoria di quelli che sono vissuti in epoche come questa! Osservate bene questi visi ripugnanti, giovani, ottusi, indifferenti, abituati alle peggiori bestialità; ma non inorgoglitevi. I nostri antenati, ai loro tempi, non erano affatto migliori».
Ormai gli studenti si erano accorti di lui. Una ventina di occhi di tutti i colori lo osservavano.
«Ehi, guarda, il signore si degna di venirci a trovare. La pappagorgia è un po’ pallida, eh, messere?»
«Ma come! Credevo che li avessimo sistemati tutti!»
«Dicono che in questi casi gli mettono davanti dell’acqua, ma gli lasciano una catena troppo corta per riuscire a raggiungerla…»
«Perché è venuto a ficcare il naso qui?»
«Mi piacerebbe mettergli le mani addosso. Scommetto che risponderebbe a tutto, confesserebbe ogni cosa…»
«Basta! Parlate più piano! È capace di sguainare la spada senza preavviso, state attenti… Guardate quanti braccialetti ha, e quel pezzo di carta!»
«Non mi piace come ci sta guardando. Andiamocene, ragazzi. Non voglio immischiarmi con questi individui!»
Finalmente si allontanarono, nascondendosi in qualche angolo buio. Solo i lampi degli occhi sospettosi ogni tanto ne rivelavano la presenza. «Meglio essersene sbarazzati» si disse Rumata. «Non mi seccheranno più». Stava per fermare uno dei monaci che si affrettavano lungo il corridoio, quando vide in un angolo altri tre monaci che sembravano meno di fretta e si concentravano con calma sulla loro occupazione. Stavano bastonando un boia, probabilmente colpevole di qualche insubordinazione. Rumata si avvicinò.
«In nome del Signore» disse, facendo tintinnare i braccialetti.
I monaci abbassarono i bastoni e lo osservarono.
«Nel Suo nome» disse il più alto dei tre.
«Portatemi dal supervisore di sezione!» gridò Rumata.
I monaci si scambiarono degli sguardi veloci. Intanto, il boia si rannicchiò dietro una tinozza.
«Di cosa avete bisogno?» chiese il monaco più alto.
Senza parlare, Rumata gli mise il documento sotto il naso.
«Aha. Bene. Al momento il supervisore di questa sezione sono io».
«Benissimo» disse Rumata, arrotolando il foglio. «Io sono Don Rumata. Sua Magnificenza mi ha fatto dono del dottor Budach. Fatelo portare qui!»
«Budach?» chiese il monaco, aggrottando la fronte. «E chi sarebbe?» Mise la mano sotto il cappuccio e si grattò la testa. «Budach il sovversivo?»
«No, no» disse un altro. «Il sovversivo si chiama Rudach. È stato rilasciato ieri notte. Padre Kin in persona gli ha tolto le catene e lo ha portato fuori. Ma…»
«Sciocchezze, sciocchezze!» sbottò Rumata, battendo il foglio arrotolato sulla coscia. «Budach è quello che ha avvelenato il Re!»
«Ahhh!» esclamò il supervisore. «Ho capito. Probabilmente è già nelle segrete.
Frate Pacca, andate a vedere al numero 12». Si rivolse ancora a Rumata: «Così voi vorreste portarlo fuori di qui?»
«Certo. Adesso appartiene a me».
«Va bene, Vostro Onore. Posso avere il foglio? Devo registrare tutto con esattezza». Rumata gli diede il modulo. Il supervisore lo esaminò da tutte e due le parti, con speciale attenzione per il sigillo, e poi disse compiaciuto: «Ecco un bel documento! Scusate, signore, potreste spostarvi un attimo e aspettare che finiamo questo lavoretto?… Ma dov’è andato il boia?»