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«E cosa ne direbbe se il nobile signore la impiccasse proprio accanto a quella forca?» disse fissando il viso pallido e le orbite scure dell’uomo. «Potrei farlo con le mie mani. Preciso, veloce. Con una bella corda di Arkanar, perché no? In nome di qualche ideale? Perché non parli, topo di biblioteca?»

Kiun taceva. Batteva i denti per la paura e si divincolava debolmente sotto la mano forte di Rumata, come una lucertola in trappola. Improvvisamente si udì un tonfo, come se qualcosa fosse caduto nel canale che costeggiava la strada. Allo stesso tempo, come per coprire il rumore nell’acqua, l’uomo gridò, disperato: «Allora impiccami, traditore!»

Rumata prese fiato e lo lasciò andare.

«Stavo solo scherzando. Non abbia paura».

«Menzogne, menzogne» singhiozzò Kiun. «Menzogne dappertutto».

«Le chiedo scusa. Mi perdoni! Però farebbe meglio a ripescare quella cosa che ha appena buttato in acqua. Si inzupperà».

Kiun non si mosse. La parte superiore del suo corpo oscillava avanti e indietro per l’indecisione. Continuava a singhiozzare piano, battendosi il mantello con le dita, insensatamente. Poi scese lentamente nel canale. Rumata aspettava. Era molto stanco, e si accasciò sulla sella. «Così dev’essere» pensò. «Non si può fare diversamente».

Kiun uscì dal canale barcollando, con un fagotto nascosto sotto il mantello.

«Libri, naturalmente» disse Rumata.

Kiun scosse piano la testa.

«No» disse con voce rauca. «Uno solo. Il mio libro».

«Che cosa scrive?»

«Temo che non le interesserebbe, nobile signore».

Rumata corrugò la fronte, sospirando.

«Afferri la staffa» disse. «Andiamo».

Tacquero entrambi per molto tempo.

«Ascolti, Kiun» disse poi Rumata. «Stavo solo scherzando. Non abbia paura di me».

«Che mondo. Che mondo ridicolo. Tutti si divertono, e tutti allo stesso modo.

Perfino il nobile Don Rumata».

Rumata fu sorpreso.

«Conosce il mio nome?»

«Sì. L’ho riconosciuta dal cerchietto sulla fronte. E pensare che ero così contento di averla incontrata, tra tutti i viandanti di questa strada…»

«Ma certo» pensò Rumata. «Ecco a cosa pensava, quando mi ha chiamato traditore». Disse: «Vede, pensavo che lei fosse una spia. E di solito le uccido subito».

«Spia? Certo. Oggi è così facile, così redditizio fare la spia. La nostra aquila fiammante, il nostro nobilissimo Don Reba è impaziente di sapere cosa dicono e cosa pensano i sudditi del re. Mi piacerebbe fare la spia. Un informatore come si deve, alla Taverna della Grigia Gioia. Che distinzione, che onore! Alle sei esco per andare alla taverna. L’oste mi accompagna al solito tavolo portandomi il primo boccale, e posso bere fino a scoppiare. È Don Reba che paga la birra… Anzi, per essere precisi, non la paga nessuno. Sto seduto lì davanti alla mia birra, con le orecchie bene aperte.

Qualche volta faccio finta di prendere nota delle conversazioni. Mi par di vederli, quei poveracci spaventati che corrono a offrirmi la loro amicizia e le loro borse. Vedo nei loro occhi quello che ho sempre desiderato: la devozione del cane battuto, stupore, timore e odio impotente. Posso avere tutte le ragazze che voglio, in qualunque momento. Le donne si sciolgono nelle mie braccia sotto gli occhi dei loro mariti… Tutti uomini ben piantati, che restano lì con un sorrisetto ossequioso sulle labbra. Una meravigliosa prospettiva, signore, non siete d’accordo? L’ho sentito raccontare con le mie orecchie da un quindicenne, un allievo della Scuola Patriottica…»

«E cosa gli ha detto?»

«Cosa avrei dovuto dirgli? Non avrebbe capito comunque. Allora gli ho parlato degli uomini di Waga Koleso, il capo dei briganti. Quando catturano una spia, gli aprono la pancia e gliela riempiono di pepe. Poi ci sono anche i soldati ubriachi che ficcano le spie in un sacco e le gettano nel lago. E badate che gli stavo dicendo la verità, la pura verità… Ma non voleva credermi. Mi ha detto: ‘Non è quello che ci insegnano a scuola’. Allora ho preso un pezzo di carta e ho cominciato a trascrivere la nostra conversazione. Ne avevo bisogno per il mio libro, ma il povero ragazzo ha pensato che volessi denunciarlo. In un attimo era in un bagno di sudore…»

Scorgevano le luci che tremolavano attraverso il fogliame degli alberi lungo la strada. Provenivano dalla taverna Lo Scheletro di Bako. I passi di Kiun divennero esitanti e tacque nuovamente.

«Che cosa c’è?» chiese Rumata.

«Una pattuglia della Milizia Grigia. Laggiù» rispose Kiun, senza fiato.

«Bene, e allora? Ascolti. Noi amiamo e riveriamo questi uomini semplici e rudi, i nostri Ragazzi Grigi, i militi. Ne abbiamo bisogno. D’ora in poi la gente farà meglio a tenere d’occhio la lingua, se non vuole penzolare dal ramo più vicino!»

Rise, perché aveva espresso il concetto splendidamente. Proprio il linguaggio delle Baracche Grigie.

Kiun sembrò farsi più piccolo. Ritirò la testa fra le spalle.

«La gente semplice deve stare al suo posto. Dio non ha dato loro la lingua per parlare, ma per leccare lo stivale del loro signore, del nobile che è stato posto al di sopra di loro dall’origine dei tempi…»

Nel recinto dietro la locanda scalpitavano i cavalli sellati della Pattuglia Grigia. Da una finestra aperta provenivano le imprecazioni rauche dei giocatori e il rumore degli astragali. Sulla soglia c’era Scheletro Bako in persona, che ostruiva il passaggio con il suo ventre enorme. Portava una vecchia giubba* di cuoio sdrucita dappertutto. Gli orli delle maniche grondavano umidità. Con la zampa pelosa stringeva un randello.

Evidentemente aveva appena ucciso un cane per la zuppa, si era ricoperto di sudore per lo sforzo ed era uscito a riprendere fiato. Uno Sturmovik Grigio ciondolava sulle scale, con l’ascia da guerra tra le ginocchia. L’impugnatura massiccia lo costringeva a voltare la faccia da una parte.

Non era difficile intuire che stava smaltendo i postumi di una sbornia colossale.

Appena ebbe notato il cavaliere si schiarì la gola, sputò per terra e gridò, rauco: «Ferma! Chi va là? Alt! Signore!»

Rumata fece a malapena un cenno, oltrepassando l’uomo senza degnarlo di uno sguardo.

«…Ma se la loro lingua lecca lo stivale sbagliato» disse ad alta voce «allora dev’essere strappata, perché sta scritto: ‘La tua lingua è il mio nemico’…»

Nascosto dalla groppa del cavallo, Kiun si affrettava a passi lunghi. Con la coda dell’occhio, Rumata notò che la sua testa calva era lucida di sudore.

«Alt, ho detto!» ringhiò lo Sturmovik.

Si sentiva la sua ascia sfregare sui gradini mentre scendeva le scale bestemmiando Dio, il diavolo e tutti i nobili.

«Devono essere in cinque» pensò Rumata aggiustandosi i polsini di pizzo.

«Macellai, ubriaconi. E con ciò?» Ormai avevano oltrepassato la taverna, e continuavano a camminare verso il bosco.

«Posso andare più svelto, se vuole» disse Kiun, con voce esageratamente decisa.

«No di certo!» rispose Rumata, facendo rallentare il cavallo. «Sarebbe noioso cavalcare per tante miglia senza neanche una scaramuccia. Non vuole proprio battersi un po’, Kiun? Lei si limita a parlare, vero?»

«No. Non provo mai il desiderio di battermi».

«È proprio questo il guaio» bofonchiò l’altro, seccato.

Si portò con il cavallo sul ciglio della strada, aggiustandosi nervosamente i guanti.

Da una curva spuntarono due cavalieri lanciati al galoppo. Come lo videro, si fermarono.

«Ehilà, nobile signore, mostri il lasciapassare!»

«Villano. Non sai neanche leggere, a che ti serve il lasciapassare?» Rumata era gelido.

Premette forte le ginocchia nei fianchi del cavallo, che cominciò a trottare spedito verso i due inseguitori. «Codardi» pensò. «Diamogliele! No, a che serve? Sono impaziente di far esplodere la rabbia che ho accumulato per tutto il giorno, ma non ne ricaverei niente. Quindi restiamo calmi, superiori. Restiamo imperturbabili, come gli dèi. Gli dèi non hanno fretta; dopotutto, hanno tutta l’eternità a disposizione…» Si avvicinò agli Sturmovik. I due, non più tanto sicuri, afferrarono le asce e indietreggiarono.