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Ogni dodici anni generava un altro drago, e aveva dodici code sempre madide di sudore. Si diceva anche che qualcuno avesse visto con i suoi occhi, di giorno, la scrofa Y, maledetta da san Michele, che vagava gemendo e grugnendo lungo la strada. Era un feroce predatore, invulnerabile al ferro ma indifeso di fronte a un osso.

Là, in quella foresta misteriosa, si poteva incontrare lo schiavo fuggiasco che portava tatuaggi neri tra le scapole. Era stupido e spietato, proprio come i ragni pelosi succhiasangue. Oppure si poteva incontrare il mago straziato da tre morti; raccoglieva sempre strani funghi per le sue pozioni, che potevano rendere invisibili o trasformare in vari animali o dare addirittura due ombre.

Naturalmente tutti sapevano che il capo dei briganti Waga Koleso e la sua banda si aggiravano lungo la strada durante la notte, e anche i minatori fuggiti dai lavori forzati nelle miniere d’argento, con le mani nere e i volti pallidi e quasi trasparenti.

Gli avvelenatori si radunavano là per i loro incontri notturni, e i cacciatori di frodo dei Baroni di Pampa si accampavano nelle radure per arrostire sul fuoco i bufali che avevano rubato.

Nel cuore della foresta, dove il sottobosco cresceva più fitto che altrove, c’era un gigantesco albero dalla corteccia crepata dagli anni, sotto il quale si trovava una casupola di legno cadente circondata da una palizzata annerita. La casupola esisteva da tempo immemorabile. La porta era sempre chiusa. Idoli scolpiti in tronchi interi si rizzavano ancora accanto ai gradini di legno fradicio. Chiunque poteva testimoniare che si trattava del punto più pericoloso di tutta la Foresta del Singhiozzo. Ogni dodici anni il vecchio Pech veniva lì per dare alla luce il suo piccolo. Poi scavava sotto la catapecchia per morire, contaminandone le fondamenta con il suo nero veleno. Se mai il veleno fosse arrivato alla superficie sarebbe stata la fine del mondo. La gente raccontava anche che, nelle notti senza luna, gli idoli si staccavano dal terreno e camminavano verso la strada facendo segnali misteriosi. E che a volte una luce diabolica splendeva dalle finestre vuote della casupola da cui provenivano rumori soffocati, e dal camino usciva del fumo.

Non molto tempo prima Kukisch, l’idiota del villaggio di Dolce Puzzo, conosciuto anche come Mucchio di Letame, si era imbattuto nella casupola e, da quello stupido che era, aveva guardato da una finestra. Era ritornato completamente pazzo, e dopo aver recuperato quel poco di senno che possedeva raccontò di aver visto all’interno un uomo seduto a un tavolaccio di legno che beveva da una botticella. La mascella gli arrivava fin quasi al petto, e aveva la pelle tutta butterata.

Naturalmente era san Michele in persona, com’era prima dell’illuminazione: puttaniere, ubriacone e bestemmiatore. Solo chi non conosce la paura poteva guardarlo. Dalle finestre usciva un odore dolciastro e ombre strane svolazzavano tra gli alberi. La gente veniva da ogni dove per ascoltare il racconto dell’idiota. La storia ebbe termine quando infine arrivarono gli Sturmovik, che gli slogarono le braccia e gli fecero far fagotto. Ma naturalmente non si poté far tacere le voci che circolavano a proposito della casupola, che da allora fu conosciuta da tutti come «Il Covo dell’Ubriaco».

Rumata si fece largo tra le fitte felci giganti e arrivò alla porta del Covo dell’Ubriaco. Legò il cavallo a uno degli idoli. Nella casupola c’era la luce accesa, e la porta, fissata a un cardine solo, era aperta. Padre Kabani, tutto arruffato, era seduto a tavola. All’interno stagnava un odore penetrante di grappa; sul tavolo, tra ossa rosicchiate e bietole bollite, c’era una grande brocca di terracotta.

«Buonasera, Padre Kabani» disse Rumata superando la soglia.

«Benvenuto» rispose lui con una voce che sembrava il suono di un corno da caccia.

Il gentiluomo si avvicinò al tavolo facendo tintinnare gli speroni, vi posò i guanti e guardò un’altra volta Padre Kabani, che sedeva immobile tenendosi la mascella. Le sopracciglia pelose e grigie gli cadevano sulle guance come ciuffi d’erba su un burrone. Quando espirava, l’aria usciva sibilando dalle narici pelose. Puzzava di alcol mal digerito.

«L’ho inventata io!» disse d’un tratto, inaspettatamente. Con grande sforzo, sollevò il sopracciglio destro e guardò cupamente Rumata. «Io! E per cosa?» Tolse la mano da sotto la mascella, gesticolando all’impazzata con il dito villoso. «E nonostante tutto sono un buono a niente! Io l’ho inventata… Eppure sono un buono a niente, eh?

E vero, è vero, un fallimento. Nessuno inventa nulla, nessuno ha idee veramente nuove, ma… Oh, al diavolo tutto!»

Rumata si slacciò la cintura, si tolse il fez e le due spade.

«Su, su» disse piano.

«La scatola!» ansimò Padre Kabani. Poi tacque, muovendo le guance in modo strano.

Senza distogliere lo sguardo dal vecchio, Rumata posò sulla panca i piedi nei loro stivali polverosi e si sedette. Mise le spade sul tavolo.

«La scatola…» ripeté Padre Kabani. «Diciamo sempre di averla inventata noi. Ma in realtà tutto era stato pensato molto prima. Qualcuno l’ha inventato molto tempo fa, l’ha messo in una scatola, ha fatto un buco nella scatola e poi ha lasciato perdere…

Forse è andato a dormire… E poi che cosa succede? Poi arriva Padre Kabani, chiude gli occhi e mette la mano nel buco». Si guardò la mano. «Ah! Inventata! Sono stato io a escogitare questa cosa! E se non ci credete siete degli stupidi. Infilo la mano… Uno!

Cosa ci trovo? Filo spinato! A che serve? Contro i lupi, naturalmente. Magnifico! Ci infilo di nuovo la mano… Due! Che cosa ci trovo? Un oggetto concepito molto abilmente, un cosiddetto tritacarne. A che serve? Per macinare finemente la carne.

Magnifico! Infilo dentro la mano per la terza volta… Tre! Che cos’è? Combustibile. A che serve? Per far bruciare la legna umida, eh?»

Padre Kabani tacque di nuovo e si irrigidì, come se qualcuno lo avesse afferrato per la collottola. Rumata prese in mano la brocca, vi guardò dentro e poi si versò qualche goccia sul dorso della mano. Il liquido era viola e puzzava di alcol da poco.

Si asciugò accuratamente con il fazzoletto di pizzo. Sulla stoffa rimasero macchie unte. La testa arruffata di Padre Kabani toccò il tavolo. Improvvisamente, si rialzò.

«Chiunque sia stato a mettere quella roba nella scatola sapeva a che cosa serviva.

Filo spinato contro i lupi? Sono stato io a farlo, stupido che sono. Usano il filo spinato per circondare i pozzi e le miniere! Così i prigionieri politici non possono scappare. Ma non farò il loro gioco! Anch’io sono un nemico, per lo Stato. Ma me l’hanno chiesto? Certo che sì! Filo spinato, eh? Certo, filo spinato, che altro. Contro i lupi, eh? Contro i lupi… Eccellente… Magnifico! Usiamolo per circondare i pozzi e le miniere! Don Reba in persona, primo ministro, li ha aiutati a fare le recinzioni. E ha anche requisito il mio tritacarne. È un cervellone! Magnifico! E adesso fa la carne macinata nella Torre della Gioia… Con gli esseri umani… Fa miracoli, durante gli interrogatori, dicono…»

«So tutto» pensò Rumata. «So tutto. So come hai gridato, durante il tuo colloquio privato con Don Reba, come hai strisciato ai suoi piedi, implorando, basta, basta, confesserò. Ma era già troppo tardi. Il tuo tritacarne era già in funzione…» Padre Kabani afferrò la brocca e la portò alle labbra, sorbendo la brodaglia tossica e grugnendo come la scrofa Y. Poi s’appoggiò rumorosamente sul tavolo, infilandosi in bocca una bietola lessata. Sulle guance larghe gli scorrevano le lacrime.

«Già, combustibile!» disse, ritrovando la voce. «Da usare come esca per il fuoco, e per un paio di giochetti. Ma che combustibile è, caro mio, se si può bere? Mescolalo alla birra, e vedi come aumenta il prezzo! Ma no, non te lo darò! Me lo berrò tutto io!