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Arthur C. Clarke

2010: Odissea due

Dedicato, con rispettosa ammirazione, a due grandi russi, entrambi ricordati nel libro:

Generale Alexei Leonov, cosmonauta, eroe dell’Unione Sovietica, artista

E Accademico Andrei Sakharov, scienziato, Premio Nobel, umanista

Traduzione di Bruno Oddera

© 1982 by Serendib BV.

© 1998 RCS Libri S. p.A., Milano.

INDICE

PREMESSA

PARTE I–LA LEONOV

PARTE II–LA TSIEN

PARTE III–LA DISCOVERY

PARTE IV–LAGRANGE

PARTE V–IL BAMBINO DELLE STELLE

PARTE VI — DIVORATORE DI MONDI

PARTE VII — SORGE LUCIFERO

EPILOGO

RINGRAZIAMENTI

PREMESSA

Il romanzo 2001: Odissea nello spazio venne scritto durante gli anni 1964–1968 e fu pubblicato nel mese di luglio del 1968, subito dopo che il film era stato distribuito. Come ho detto nel libro I mondi perduti di 2001, entrambi i lavori procedettero simultaneamente, con reciproci apporti. Feci così, non di rado, la strana esperienza di revisionare il manoscritto dopo avere visionato spezzoni del film tratto da una versione precedente della vicenda un modo stimolante, ma alquanto dispendioso, di scrivere romanzi.

Per conseguenza v’è un parallelismo assai più accentuato di quanto solitamente accada tra libro e film, ma vi sono anche differenze importanti. Nel romanzo, la destinazione della nave spaziale Discovery era Giapeto (o Japetus), la più enigmatica delle tante lune di Saturno. Il sistema di Saturno veniva raggiunto via Giove: la Discovery si avvicinava, sin quasi a sfiorarlo, al gigantesco pianeta, sfruttandone l’enorme campo gravitazionale per dar luogo a un effetto «fionda» e per esserne accelerata nella seconda fase del suo viaggio. Esattamente la stessa manovra venne effettuata dalle sonde spaziali Voyager nel 1979, quando procedettero alla prima ricognizione particolareggiata dei giganti esterni.

Nel film, invece, Stanley Kubrik evitò saggiamente confusioni situando il terzo confronto tra l’uomo e il monolito fra le lune di Giove. Saturno venne completamente escluso dalla sceneggiatura, anche se, in seguito, Douglas Trumbull si avvalse dell’esperienza fatta durante le riprese cinematografando il pianeta dagli anelli per la sua produzione cinematografica Silent Running.

Nessuno avrebbe potuto immaginare allora, intorno alla metà degli anni Sessanta, che le lune di Giove sarebbero state esplorate non già nel secolo successivo, ma appena quindici anni dopo. E nessuno aveva mai sognato le meraviglie che vi sarebbero state scoperte anche se possiamo star certi che le scoperte dei due Voyager saranno un giorno superate da risultati ancor più inattesi. Quando 2001 venne scritto, Io, Europa, Ganimede e Callisto non erano altro che minuscoli puntini luminosi anche nel più potente dei telescopi; ora sono mondi, ognuno dei quali unico, e uno di essi Io è il corpo vulcanicamente più attivo del sistema solare.

Eppure, tutto sommato, sia il film, sia il libro, figurano assai bene anche alla luce di queste scoperte, ed è affascinante paragonare le sequenze del film relative a Giove con le effettive riprese delle telecamere dei Voyager. Ma, ovviamente, qualsiasi cosa venga scritta oggi deve includere i risultati delle esplorazioni del 1979: le lune di Giove non sono più territori sconosciuti.

E v’è anche un altro e più sottile fattore psicologico da prendere in considerazione. 2001 venne scritto in un periodo che è ormai situato al di là del Grande Spartiacque della storia umana; ne siamo separati per sempre dal momento in cui Neil Armstrong pose piede sulla Luna. Il 20 luglio del 1969 era ancora situato di un decennio nel futuro quando Stanley Kubrik ed io cominciammo a pensare al «proverbiale buon film di fantascienza» (parole sue). Ora realtà storica e fantasia sono divenute inestricabilmente intrecciate.

Gli astronauti dell’Apollo avevano già veduto il film quando partirono per la Luna. Gli uomini dell’equipaggio di Apollo 8 che, il giorno di Natale del 1968, divennero i primi uomini ad aver mai veduto l’emisfero opposto della Luna, mi dissero di essere stati tentati di annunciare per radio la scoperta di un grande monolito nero: ahimè, la discrezione prevalse.

E vi furono, in seguito, esempi quasi incredibili della natura che imitava l’arte. Il più strano di tutti fu la saga di Apollo 13, nel 1970.

Come buon avvio, il modulo di comando, che ospita l’equipaggio, era stato battezzato Odissea. Immediatamente prima dell’esplosione del serbatoio di ossigeno che causò il fallimento della missione, l’equipaggio aveva ascoltato il tema di Zarathustra, di Richard Strauss, ormai universalmente identificato con il film. Subito dopo la perdita del serbatoio, Jack Swigert comunica per radio al Controllo Missione: «Houston, abbiamo avuto un problema». Le parole di cui si era servito Hal con l’astronauta Frank Poole, in una situazione analoga, erano state: «Spiacente di interrompere i festeggiamenti, ma abbiamo un problema.»

Quando venne pubblicato, in seguito, il rapporto sulla missione Apollo 13, l’amministratore della NASA, Tom Paine, me ne inviò una copia e, sotto le parole di Swigert, annotò: «Proprio come tu avevi sempre detto che sarebbe accaduto, Arthur». Continuo a provare una sensazione assai strana quando penso a tutta questa serie di avvenimenti quasi, in effetti, come se condividessi una certa responsabilità.

Un’altra risonanza è meno seria, ma ugualmente impressionante. Una delle sequenze tecnicamente più brillanti del film era quella in cui Frank Poole veniva mostrato mentre correva in tondo lungo la pista circolare della gigantesca centrifuga, trattenuto dalla «gravità artificiale» prodotta dalla rotazione.

Quasi un decennio dopo, l’equipaggio del superbamente riuscito Skylab si rese conto che i progettisti avevano fornito un’analoga geometria. Un anello di armadi formava una liscia fascia circolare intorno allo spazio interno della stazione. Lo Skylab, tuttavia, non ruotava, ma questo non ostacolò i suoi ingegnosi occupanti. Essi constatarono che potevano correre tutto attorno allo spazio disponibile, proprio come topolini in gabbia, dando luogo a un risultato visivamente indistinguibile da quello mostrato nel film 2001. E trasmisero alla Terra le immagini televisive dell’intero esercizio (devo precisare quale fu l’accompagnamento musicale?) con il commento: «Stanley Kubrick dovrebbe vedere questa trasmissione». E a suo tempo egli la vide, poiché gli inviai la registrazione su video nastro. (Non mi venne mai restituita; Stanley si serve, come archivio, di un Buco Nero addomesticato.)

Un altro collegamento tra il film e la realtà consiste nel dipinto del Comandante dell’ApolloSoyuz, il cosmonauta Alexei Leonov, «Vicino alla Luna». Lo vidi per la prima volta nel 1968, quando 2001 venne presentato alla Conferenza delle Nazioni Unite sugli Impieghi Pacifici dello Spazio Esterno. Immediatamente dopo la proiezione, Alexei mi fece rilevare che il suo dipinto (figura a pagina 32 del libro di LeonovSokolov, Le stelle ci stanno aspettando, Mosca, 1967) mostra esattamente lo stesso allineamento dell’inizio del film: la Terra che sorge al di là della Luna e il Sole che sorge al di là di entrambe. Lo schizzo del quadro, eseguito da lui, con autografo, figura ora su una parete del mio ufficio; per altri particolari, vedasi il Capitolo 12.

È forse questo il punto giusto per parlare di un altro nome meno noto che figura nelle pagine del romanzo, quello di Hsueshen Tsien. Nel 1936, insieme al grande Theodore Von Karman e a Frank J. Malina, Tsien fondò il Laboratorio Aeronautico Guggenheim dell’Istituto di Tecnologia della California (GALCIT) il diretto antenato del famoso Jet Propulsion Laboratory di Pasadena. Egli fu inoltre il primo professore Goddard al Caltech e contribuì in vasta misura, nel corso degli anni Quaranta, alle ricerche americane sui razzi. In seguito — e fu uno degli episodi più vergognosi del periodo McCarthy — venne arrestato per false accuse di spionaggio quando voleva tornare nel suo paese. Negli ultimi due decenni è stato uno dei massimi esponenti del programma missilistico cinese.