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Un poliziotto che venne a parlare con la nostra classe al liceo diceva che la polizia era lì per aiutarci, e che solo le persone che avevano fatto qualcosa di male dovevano aver paura di loro. Jean Brouchard disse allora quello che io stavo pensando, che era difficile non aver paura di persone che ti urlavano contro e ti minacciavano; che anche se non avevi fatto nulla di male, vedere un omone che ti agitava una pistola davanti poteva spaventare chiunque. Il poliziotto diventò rosso in faccia e disse che quell'atteggiamento non era corretto. Non lo era nemmeno il suo, ma io questo non lo dissi.

Però il poliziotto che abita nel mio condominio è sempre stato gentile con me. Si chiama Daniel Bryce, ma mi ha detto di chiamarlo Danny. Mi saluta ogni volta che mi vede, e io gli rispondo. Una volta mi ha fatto i complimenti per come tengo pulita la mia macchina. Non l'ho mai sentito urlare contro nessuno. Non so cosa pensa di me, tranne il fatto che gli piace la pulizia della mia auto. Non so se sa che sono autistico. Perciò cerco di non aver paura di lui, perché non ho mai fatto niente di male; però nonostante tutto un poco di paura ce l'ho.

Ho cercato di guardare qualche film poliziesco alla TV, ma mi sono spaventato ancor peggio. I poliziotti sembrano sempre stanchi e arrabbiati, e pare che ciò sia normale e giusto. Io non devo mai comportarmi impulsivamente nemmeno quando sono in collera, ma loro possono. E questo non è giusto. Non c'è simmetria.

Però non voglio nemmeno essere ingiusto verso Danny Bryce. Quando lui mi sorride, anch'io sorrido. Quando mi saluta gli rendo il saluto. Cerco di far finta che la pistola che porta sia un giocattolo, così da non aver troppa paura quando mi è vicino e da non cominciare a sudare. Lui potrebbe allora pensare che io abbia fatto qualcosa di male.

Sotto le coperte e i cuscini adesso sono proprio sudato, anche se sono calmo; così mi alzo, riaggiusto il letto e faccio una doccia. È tardi, sono le nove passate quando esco dal bagno e mi rivesto. Ho fame. Metto l'acqua a bollire e faccio cuocere un po' di tagliatelle.

Il telefono squilla e io sobbalzo. Il telefono mi sorprende sempre, e io sobbalzo sempre quando sono sorpreso.

È il signor Aldrin. Mi si stringe la gola. Per un bel po' non riesco a parlare, ma lui non insiste, aspetta. Lui capisce.

Io invece non capisco. Lui fa parte dell'ambiente d'ufficio, prima non mi ha mai chiamato a casa. Mi sento in trappola. Lui è il mio principale. Mi può dire cosa devo fare, ma solo sul lavoro. Mi sembra sbagliato sentire la sua voce a casa, al telefono.

— Io… io non mi aspettavo una sua chiamata — dico.

— Lo so — risponde. — Ti ho chiamato a casa perché ti volevo parlare fuori dell'ufficio.

Mi si serra lo stomaco. — Per quale ragione? — chiedo.

— Lou, devi sapere una cosa prima che il signor Crenshaw ti chiami. Esiste un trattamento sperimentale che può cancellare l'autismo negli adulti.

— Lo so — dico. — Ne ho sentito parlare, lo hanno provato con le scimmie.

— Sì, ma quell'articolo di giornale è vecchio di più di un anno; ci sono stati… dei progressi. La nostra compagnia ha acquistato il programma di ricerca. Crenshaw vuole che tutti voi proviate il nuovo trattamento. Io non sono d'accordo con lui: penso sia troppo prematuro e credo sia sbagliato chiedervelo. O almeno bisognerebbe lasciarvi la scelta. Lui però è il mio superiore e non posso impedirgli di parlarvi.

Se non può impedirglielo, a che scopo mi chiama? Questa è una di quelle manovre alle quali si dedicano le persone normali quando vogliono fare appello alla tua simpatia mentre fanno qualcosa di male, ma solo perché non riescono a evitarlo?

— Io voglio aiutarvi — dice il signor Aldrin. Ricordo i miei genitori dire che voler fare qualcosa non era lo stesso che farla. Perché lui non dice semplicemente: "Vi aiuterò"?

— Credo che voi abbiate bisogno di un avvocato, qualcuno che vi aiuti a negoziare con Crenshaw — continua. — Qualcuno più in gamba di me. Potrei trovarne uno per voi.

Penso che lui non voglia essere il nostro avvocato; credo abbia paura che Crenshaw lo licenzi. Ed è giusto, perché Crenshaw può licenziare chiunque di noi. Combatto con la mia lingua ostinata per spiccicare le parole. — Non dovrei… non vorrei… credo… credo che dovremmo trovare noi la persona adatta.

— Davvero? — domanda, e sento il dubbio nella sua voce.

— Posso chiedere al Centro — dico.

— Forse sarebbe meglio — annuisce. Segue una lunga pausa. Poi riprende, a voce più alta: — Lou, se dovessi avere delle difficoltà a trovare la persona giusta… se vuoi il mio aiuto, fammelo sapere. Io voglio il tuo bene, lo sai.

No che non lo so. So che lui è stato sempre gentile e paziente con noi, ma non so se davvero voglia il nostro bene. Come farebbe a sapere in cosa consiste? Gli farebbe piacere se sposassi Marjory? Cosa sa di tutti noi fuori dell'ambiente di lavoro?

— Grazie — dico, una risposta sicura e convenzionale adatta a tutte le occasioni. La dottoressa Fornum sarebbe fiera di me.

— Allora va bene — dice lui. Anche queste sono parole convenzionali, che non significano nulla. — Chiamami se hai bisogno di qualcosa. Aspetta, ti do il mio numero… — Enuncia alcune cifre che il mio telefono registra, ma che tanto io terrei ugualmente a memoria; per me i numeri sono facili. — Arrivederci, Lou — conclude. — Cerca di non preoccuparti.

Cercare è un conto, farlo è un altro. Appendo il ricevitore e torno alle mie tagliatelle che ormai sono scotte. Ma non me ne importa, non mi dispiacciono: sono più tenere.

Penso al signor Crenshaw che vorrebbe imporci il trattamento. Non credo che sia autorizzato a farlo: ci sono leggi che riguardano noi e la ricerca medica. Non so esattamente in che cosa consistano, ma non credo che possano permettergli di farlo. Il signor Aldrin dovrebbe saperne più di noi su questo punto: lui è un manager. Eppure sembra convinto che Crenshaw sia in grado di fare ciò che desidera o che intenda tentare di farlo.

Mi è difficile prendere sonno.

Venerdì mattina Cameron mi dice che il signor Aldrin ha chiamato anche lui. Ha chiamato tutti. Il signor Crenshaw invece non ha ancora detto niente a nessuno di noi. Io ho una strana sensazione nello stomaco, come di nausea. È un sollievo sedermi davanti al computer e dedicarmi al lavoro.

Per tutto il giorno non succede nulla, e il mio lavoro procede bene. Dopo il pranzo, Cameron mi dice che la locale società per l'autismo ha stabilito una riunione al Centro per parlare del programma di ricerca. Lui ci va, e pensa che dovremmo andarci tutti. Per questo sabato io non avevo fatto progetti, tranne la pulizia della macchina; e comunque vado al Centro quasi tutti i sabati mattina.

La mattina dopo quindi mi reco al Centro a piedi. È una passeggiata lunga, ma non fa molto caldo e camminare mi fa bene.

Al Centro trovo non solo i miei compagni di lavoro ma anche molti di noi che vivono in diversi punti della città. Parecchi di loro si fanno vedere raramente. Io ho notato che i più anziani di noi, quelli più handicappati, vengono più spesso degli altri; i giovani, che sono come Joe Lee, non vengono quasi mai.

Il Centro tuttavia non è soltanto per gli autistici: vediamo molta gente con altri tipi di handicap, specialmente durante i fine settimana. Io non so quali siano precisamente i loro handicap. Non mi piace pensare a tutte le cose che possono guastarsi nel meccanismo degli esseri umani.

Alcuni hanno un atteggiamento amichevole e parlano con noi. Oggi Emmy mi viene subito incontro. È più piccola di statura di me, ha capelli neri e lisci e occhiali dalle lenti spesse. Non so perché non si sia mai fatta operare agli occhi e chiederglielo non è educato. Emmy sembra sempre in collera. Le sue sopracciglia sono perpetuamente aggrottate, ai lati delle labbra ha piccoli noduli di muscoli rigidi e piega gli angoli della bocca sempre all'ingiù. — Tu hai una ragazza — mi dice.

— No — rispondo.

— Sì. Me l'ha detto Linda. Lei non è una di noi.