L’altra madre del nido si limitò ad ignorarlo e si rivolse a Mamma Nilla. — Mi spiace, mi spiace davvero, ma non posso, Liz, è troppo per me.
— Ecco, appunto. — Esitando, Leo appoggiò la mano su un rigonfiamento della tuta, poi la lasciò ricadere e decise invece di farle sgomberare con larghi gesti delle mani.
— Va bene, ragazze, vi capisco — Mamma Nilla acquietò la loro evidente ansia. — Io rimarrò a difendere il forte, immagino. Dopo tutto, non ho nessuno che aspetti di vedere tornare questo vecchio corpo — e rise, un po’ forzatamente.
— Allora la responsabilità del dipartimento passa a te? — Il dottor Minchenko chiese conferma a Mamma Nilla. — Tienilo in funzione come puoi… e quando non puoi, vieni da me.
Lei annuì con aria assorta, come se solo in quel momento si fosse resa conto dell’enormità e della complessità del compito che l’attendeva.
Il dottor Minchenko si occupò del ragazzo con la ferita sulla fronte; Leo riuscì finalmente a disfarsi delle altre due donne dicendo: — Avanti, devo andare a svuotare il frigorifero degli ortaggi.
— Con tutto quello che sta succedendo, perché perde il suo tempo a ripulire un frigorifero? — mormorò tra sé Mamma Nilla. — Follie…
— Mamma Nilla, devo andare, ora - la piccola quad avviluppò tutte le braccia intorno al corpo della donna per sottolineare l’urgenza, e Mamma Nilla fu costretta a seguirla.
Andy stava ancora esprimendo la propria indignazione con strilli intermittenti.
— Ehi, piccolino — il dottor Minchenko si interruppe per rivolgersi al bambino, — non è questo il modo di parlare a tua madre…
— Niente latte — spiegò Claire. E con aria cupa, sentendosi assolutamente inadeguata, gli offrì il biberon, che lui rifiutò prontamente. Quando cercò di staccarsi per un attimo dal bambino per tuffarsi a recuperare la bottiglia, il piccolo le si avviluppò attorno ad un braccio, strillando frenetico. Uno degli altri piccoli di cinque anni si mise tutte e quattro le mani sulle orecchie, in un gesto molto espressivo.
— Vieni in infermeria con noi — disse Minchenko con un sorriso di comprensione. — Penso di avere qualcosa che risolverà il problema. A meno che tu non voglia cercare di allattarlo adesso, cosa che non raccomanderei.
— Oh, la prego — disse Claire piena di speranza.
— Ci vorranno un paio di giorni perché il tuo metabolismo si rimetta a funzionare — la avvertì Minchenko, — dato lo sfasamento del biofeedback. Ma in ogni caso non ho ancora avuto la possibilità di visitarti da quando sono risalito…
Claire lo seguì prontamente, piena di gratitudine e persino Andy smise di frignare.
Pramod non aveva scherzato quando aveva parlato delle ganasce, rifletté Leo con un sospiro, osservando il metallo fuso davanti a lui. Richiamò le specifiche sul quadro del computer che fluttuava accanto a lui con un po’ di goffaggine e lentezza a causa delle mani guantate. Quella particolare tubatura isolata serviva come fognatura. Non era per niente attraente, ma un errore in quel punto poteva provocare un disastro come da qualunque altra parte.
E forse anche peggiore, pensò Leo con una smorfia torva. Guardò Bobbi e Pramod che erano sospesi in attesa lì vicino nelle loro tute argentee; altre cinque squadre di quad erano visibili sulla superficie dell’Habitat mentre un rimorchiatore si stava mettendo in posizione poco lontano. Rodeo, a forma di mezzaluna crescente, campeggiava sullo sfondo. Be’, di certo loro potevano definirsi gli idraulici più cari di tutta la Galassia.
L’intrico di tubi e di condutture numerate che aveva davanti costituiva il cordone ombelicale tra un modulo e l’altro, mentre una ulteriore copertura li riparava dalla polvere microscopica e da altri rischi. Il loro compito era di riallineare i moduli in fasci longitudinali uniformi per resistere all’accelerazione. Ogni fascio, legato insieme come le capsule di carico, avrebbe formato una massa compatta, indipendente e bilanciata, almeno per quello che concerneva la spinta relativamente bassa che Leo intendeva imprimere. Come guidare una squadra di ippopotami aggiogati. Ma riallineare i moduli comportava anche il riallineamento di tutti loro collegamenti, e c’erano decine e decine e decine di collegamenti.
Con la coda dell’occhio, Leo colse un movimento. L’elmetto di Pramod seguì l’inclinazione di quello di Leo.
— Ecco che se ne vanno — disse Pramod con voce carica di soddisfazione ma anche di rammarico.
La capsula con a bordo gli ultimi scampati terrestri scivolava silenziosamente nel vuoto, e un lampo di luce si rifletté su uno degli oblò mentre scompariva alla vista dietro la curva di Rodeo. Ecco la fine dei terricoli con le gambe, tutti, escluso lui, il dottor Minchenko, Mamma Nilla e un giovane supervisore un po’ folle armato di una chiave inglese; lo avevano estratto da un condotto e questi si era dichiarato perdutamente innamorato di una ragazza quad della Manutenzione Sistemi di Aerazione e si era rifiutato di andarsene. Se avesse riacquistato la ragione una volta raggiunto Orient IV, decise Leo, avrebbero potuto sbarcarlo là. Nel frattempo la scelta era tra eliminarlo o metterlo al lavoro. Dopo un’occhiata alla chiave inglese, Leo lo aveva messo al lavoro.
Tempo. I secondi sembravano strisciare come bruchi sulla pelle di Leo, sotto la tuta. L’ultimo gruppo di terrestri presto avrebbe raggiunto gli altri e avrebbe potuto scambiare tutte le necessarie informazioni. E subito dopo, rifletté Leo, la GalacTech avrebbe iniziato le sue contromosse. Non ci voleva un ingegnere per individuare gli innumerevoli punti in cui l’Habitat era vulnerabile. L’unica scelta rimasta ai quad era di svignarsela a tutta velocità.
Una calma flemmatica, rammentò Leo a se stesso, era la chiave per uscirne vivi. Doveva ricordarlo sempre. Riportò la propria attenzione sul lavoro che lo attendeva. — Va bene: Bobbi, Pramod, diamoci da fare. Tenetevi pronti con le chiusure di emergenza da entrambe le estremità, e avremo ragione di questo mostro…
CAPITOLO TREDICESIMO
Gli altri profughi fecero largo per lasciar passare Bruce Van Atta che uscì a spron battuto dal tunnel di attracco per entrare nella saletta di sbarco del Porto Navette Tre di Rodeo. Fu costretto a fermarsi un attimo e a stringersi le ginocchia con le mani per superare l’ondata di stordimento causata dall’improvviso ritorno alla gravità. Di stordimento e di furore.
Per parecchie ore, mentre il modulo ormai staccato orbitava intorno a Rodeo, Van Atta aveva avuto la certezza che Graf volesse ucciderli tutti, anche se la presenza delle maschere a ossigeno indicava chiaramente il contrario. Se questa era una guerra, Graf non sarebbe mai stato un buon soldato. Persino io so che non si deve umilare in questo modo una persona e poi lasciarla vivere. Ti pentirai di aver fatto il doppio gioco con me, Graf, e ti pentirai ancor di più di non avermi ucciso quando ne avevi l’occasione. Con uno sforzo, controllò il proprio furore.
Dalla Stazione di Trasferimento sovraccarica per l’arrivo a sorpresa di circa trecento persone inattese, Van Atta aveva requisito d’autorità un posto per sé sul primo traghetto disponibile in partenza per il pianeta. Nelle venti ore che erano trascorse prima che il modulo, fra continui ritardi e un’agonizzante lentezza, riuscisse ad agganciarsi a uno dei trasporti per il personale della Stazione, non aveva chiuso occhio. Poi anch’egli insieme al resto del personale dell’Habitat Cay, era sbarcato in un gruppo disordinato da quella stretta e scomoda prigione mobile ed era stato trasportato alla Stazione di Trasferimento, dove era stato sprecato altro tempo.
Informazioni. Era passato quasi un giorno intero da quando erano stati tagliati fuori dall’Habitat. Doveva assolutamente raccogliere informazioni. Salì su di un tubo mobile e si diresse agli uffici dell’amministrazione del Porto Navette Tre, dov’era situato il centro comunicazioni. La dottoressa Yei arrancava dietro di lui, gemendo, ma Van Atta non le prestava attenzione.
Mentre veniva trasportato sopra la pista d’atterraggio, colse la propria immagine tremolante riflessa nelle pareti di plexiplastica del tunnel. Aveva un aspetto orribile. Raddrizzò la schiena e tirò in dentro la pancia. Non doveva presentarsi davanti agli altri amministratori con un aspetto stanco e rassegnato: i deboli venivano facilmente sopraffatti.