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— Per la procreazione provvedono catturando donne selvagge, le usano come scrofe e allevano in gruppo il frutto di questi accoppiamenti. Adorano qualcosa che viene chiamato il Dio Morto e tentano di placarlo con sacrifici, sacrifici umani. Non rappresentano nulla, e non le vestigia di qualche antica superstizione — disse Estrel quando Falk spese qualche parola in favore degli Apicultori. A causa della sua sottommissione, a volte correva il rischio di essere trattata come una creatura di specie inferiore. L'arroganza, in una persona così passiva, era toccante e a un tempo divertente per Falk che a volte la stuzzicava un poco. — Be', anche te ti ho vista alla sera borbottare al tuo amuleto. Le religioni sono varie…

— Certo, — rispose, ma con un tono più dolce.

— Mi chiedo contro chi siano armati.

— Contro i loro Nemici, non v'è dubbio. Come se fossero in grado di combattere contro gli Shing. E come se gli Shing si curassero di combattere contro di loro.

— Vuoi riprendere il viaggio, vero?

— Sì, non mi fido di questa gente. Nascondono troppe cose.

Quella sera andò a prender commiato dal capo della comunità, un uomo dagli occhi grigi di nome Hiardan, un po' più giovane di lui. Hiardan accettò i suoi ringraziamenti con la solita laconicità, poi gli disse nei modi semplici e misurati che distinguevano gli Apicultori: — Credo che tu ti sia comportato in modo assolutamente franco con noi. Di questo ti sono grato. Ti avremmo accolto più liberamente e ti avremmo parlato di argomenti noti solo a noi se fossi venuto da solo.

Falk esitò prima di rispondere. — Mi dispiace. Ma non sarei giunto fin qui se non fosse per la mia guida e amica. E… voi vivete qui tutti assieme, Signore Hiardan. Siete mai stati soli?

— Raramente — rispose l'altro. — La solitudine è la morte dell'anima: l'uomo è l'umanità stessa. Così si dice da noi. Ma da noi si dice anche: "Riponi la tua fiducia solo nei fratelli o nei compagni di arnia che conosci sin dall'infanzia". Ecco la nostra regola. È l'unica sicura.

— Ma io non ho congiunti, perciò non ho sicurezza, Signore — replicò Falk e salutando militarmente, come era costume degli Apicultori, si accomiatò. L'indomani mattina, sul far del giorno, proseguì verso ovest assieme a Estrel.

Di quando in quando durante il cammino videro altri villaggi o accampamenti, ma nessuno grande e tutti dispersi, più o meno cinque o sei in un raggio di cinque, seicento chilometri. Falk ammise fra sé e sé che in alcuni si sarebbe fermato. Era armato, mentre quella gente sembrava del tutto inerme: un paio di tende mobili, da nomadi, lungo un fiumiciattolo semighiacciato, un pastorello solitario su un enorme pendio collinare che pascolava vacche rossastre mezzo selvagge, oppure, molto più in là sul terreno ondulato, uno svolazzo di fumo azzurrognolo che si perdeva nello sterminato cielo grigio. Aveva abbandonato la Foresta per cercare, se mai ve ne fossero, notizie che lo riguardavano, un accenno a cos'era mai, qualcosa che gli facesse capire cos'era stato negli anni di cui non serbava memoria; come poteva venirne a capo se non osava rischiare di fare domande? D'altro canto Estrel aveva paura a fermarsi anche nel più sperduto, nel più misero di questi villaggi della prateria. — Non hanno simpatia per i Vagabondi — soleva ripetere — né per alcuno straniero. Quelli che vivono così soli sono pieni di terrore. Nel loro terrore arriverebbero anche ad accoglierci, a darci cibo e riparo; ma poi nella notte verrebbero a imprigionarci, a ucciderci. Non puoi andar da loro, Falk — e qui lanciò un'occhiata ai suoi occhi — a dirgli sono dei vostri… Sanno benissimo che siamo qui; ci tengono d'occhio. Se ci vedono partire domani non ci torceranno un capello. Ma se non ci vedono andar via, oppure se cerchiamo di andare da loro, avranno paura. È la paura che uccide.

Il volto acceso dal vento e stanco dal viaggio, il cappuccio spinto all'indietro, l'infuocato vento dell'ovest, pungente e impetuoso, che gli giocava tra i capelli, Falk stava seduto vicino al fuoco da campo, al riparo di una collina a pan di zucchero. Teneva le braccia attorno alle ginocchia. — Verissimo — disse, con tono meditabondo, lo sguardo fisso al lontano filo di fumo.

— Magari è questo il motivo per cui gli Shing non uccidono nessuno. — Estrel intuiva il suo umore e cercava di rincuorarlo, di deviarne i pensieri.

— E perché? — le chiese, consapevole del suo intento, ma senza alcuna reazione.

— Perché non hanno paura.

— Può darsi. — Lo aveva fatto pensare, e non erano pensieri molto allegri. Infine disse: — Bene, poiché si dà il caso che debba andar da loro a porgli tutte le mie domande — questo è lo scopo del mio viaggio — se mi uccidono avrò la soddisfazione di sapere che gli facevo paura…

Estrel scosse la testa. — No. Non uccidono.

— Neanche gli scarafaggi? — chiese lui, scaricando su di lei il malumore derivato dalla stanchezza. — Cosa fanno agli scarafaggi nella loro Città, li disinfettano e poi li lasciano liberi, come i Cancellati di cui mi hai parlato?

— Non lo so — rispose Estrel. Prendeva sempre seriamente le sue domande. — Ma per loro è legge rispettare la vita, e le leggi le osservano.

— Non rispettano le leggi degli uomini. E perché mai dovrebbero, se non sono neanche uomini?

— È proprio per questo che nel loro comportamento c'è rispetto per la vita, non ti pare? Mi hanno insegnato che non ci sono state guerre sulla terra, né fra i vari mondi dacché sono venuti gli Shing. Sono gli esseri umani che si uccidono l'un l'altro!

— Non vi è essere umano che potrebbe farmi quello che hanno fatto gli Shing. Io amo la vita, la amo perché è una cosa molto più difficile e insicura della morte; e la qualità più difficile e insicura di tutte è l'intelligenza. Gli Shing hanno rispettato le loro leggi e mi hanno lasciato in vita, ma mi hanno ucciso l'intelligenza. Non è forse un assassinio questo? Hanno ucciso l'uomo che ero, il bambino che sono stato. E farsi gioco della mente di un uomo a tal punto, è forse rispetto? La loro legge è una pura truffa e il loro rispetto un raggiro.

Sconcertata dalla collera che l'aveva preso, Estrel inginocchiata vicino al fuoco infilava sullo spiedo i pezzi di un coniglio che lui aveva ucciso. La rossa chioma polverosa le incorniciava di riccioli il capo chino; aveva un'espressione paziente e distaccata. Come sempre, riuscì a riavvicinarlo a sé pentito e preso dal desiderio. Erano molto uniti, eppure egli non riusciva mai a capirla; si chiedeva se erano così tutte le donne. Pareva una stanza inaccessibile di una casa smisurata, un cofanetto di cui non aveva la chiave. Non gli nascondeva nulla, eppure il suo riserbo rimaneva intatto, impenetrabile.

Uno sconfinato crepuscolo si andava allargando sulla terra, una distesa di erba zuppa d'acqua per miglia e miglia. La fiammella del loro fuoco bruciava di un rosso dorato nella limpida oscurità della notte.