— Non possiamo proseguire sui muli all'interno della città — disse. — Lasciamoli qui. — Si fermarono a una stalla pubblica sgangherata; in tono suadente Estrel rivolse qualche parola nella lingua occidentale all'uomo che teneva quel posto, e quando Falk le domandò cosa mai gli avesse chiesto rispose: — Di tenersi i muli in cambio.
— In cambio?
— Se non paghiamo il mantenimento, se li terrà lui. Non hai denaro, vero?
— No — ammise Falk umilmente. Non solo non aveva denaro, ma non ne aveva mai visto; il Galaktika poi aveva un termine per indicarlo, mentre nel dialetto della Foresta mancava assolutamente.
La stalla era l'ultimo edificio ai bordi di un campo pieno di macerie e rifiuti che separava quella città cadente da un muro lungo e alto di blocchi di granito. A Es Toch c'era un'unica entrala per i pedoni. Il cancello era segnato da alti pilastri conici, e su quello di sinistra era incisa un'iscrizione in Galaktika: RISPETTO PER LA VITA. Su quello di destra, invece, c'era un'iscrizione più lunga in una lingua che Falk non aveva mai visto. Nessun traffico al cancello, né guardie.
— Il pilastro della Menzogna e quello del Segreto — disse ad alta voce mentre li attraversava, rifiutando di farsi sopraffare dal timore; ma poi, quando entrò in Es Toch e le gettò un'occhiata, rimase zitto e non disse più niente.
La Città dei Signori della Terra era costruita sui margini di una gola, una tremenda spaccatura tra i monti, stretta, fantastica; le nere pareti striate di verde strapiombavano orribili per mezzo miglio, fino alla laminata striscia argentea di un fiume nelle ombrose profondità. Sui bordi del precipizio si innalzavano le torri della città, quasi sollevate da terra e collegate attraverso l'abisso da ponti sottili. A ridosso di una curva vertiginosa della gola andavano a morire torri, ponti e strade e si richiudeva il muro della città. Nell'abisso sfrecciavano elicotteri dalle diafane pale, e slitte guizzavano nelle vie appena intraviste e sui ponti leggeri. Pareva che il sole, non ancora a perpendicolo sui massicci picchi orientali, non proiettasse ombre; le grandi torri verdi splendevano di luce come fossero traslucide.
— Vieni — disse Estrel che lo precedeva di poco, con gli occhi brillanti — non c'è nulla da temere qui, Falk.
La seguì. Nella strada che scendeva tra basse costruzioni verso le torri rasenti il baratro non c'era anima viva. Si girò anche all'indietro a guardare il cancello, ma non vide più l'apertura tra i pilastri.
— Dove andiamo?
— So di un posto, una casa dove si ferma la mia gente. — Gli prese il braccio per la prima volta in tutto il cammino percorso assieme, e avanzarono per la lunga via a zigzag, lei con gli occhi bassi e aggrappata a lui. Adesso, avvicinandosi al cuore della città, le costruzioni di destra si ergevano tanto alte da non distinguerne bene la sommità, mentre a sinistra, senza muri né parapetti, si spalancava sotto di loro l'abisso vertiginoso pieno d'ombre, nera fenditura tra le torri luminose appollaiate ai suoi bordi.
— E se qui avessimo bisogno di denaro…
— Ci penseranno loro.
Attorno passava gente su slitte, vestita in modo strano quanto vivace; le piazzole d'atterraggio sugli edifici dalle pareti lisce sciamavano d'elicotteri. Sopra la gola rombò un aeromobile, alzandosi in quota.
— Sono tutti… Shing?
— Qualcuno.
Inconsciamente aveva posato la mano libera sul laser. Estrel, senza nemmeno guardarlo, ma sorridendogli leggermente, disse: — Non adoperare la pistola qui, Falk. Sei venuto per riacquistare la memoria, non per perderla.
— Dove stiamo andando, Estrel?
— Qui.
— Questo? Ma è un palazzo.
I luminosi muri verdi torreggiavano alti verso il cielo, senza finestre, senza segni. Di fronte a loro si stagliava una porta quadrata, aperta.
— Qui mi conoscono. Non aver paura. Vieni con me.
Lo teneva sempre per il braccio. Egli esitava. Girandosi a guardare la strada vide venire molti uomini, i primi che vedeva a piedi. Si avvicinavano a loro lentamente, tenendoli d'occhio. Quella vista lo spaventò ed entrò con Estrel nell'edificio, attraverso portali automatici che scorrevano di lato al loro approssimarsi. Appena dentro, colto dall'idea di aver formulato un giudizio erroneo, di aver commesso un orribile errore, si fermò. — Che posto è questo? Estrel…
Era un salone altissimo, invaso da una cupa luce verdastra e pallida come in una grotta subacquea; si vedevano porte e corridoi donde si avvicinavano uomini, correndogli incontro. Estrel s'era staccata da lui. Preso dal panico si volse verso le porte: ma adesso erano chiuse. Non avevano maniglie. Pallide figure d'uomini irruppero nel salone, correndo verso di lui e gridando. Si appoggiò con le spalle alle porte chiuse e cercò il laser. Non c'era più. Era nella mano di Estrel. Stava dietro gli uomini che circondavano Falk, quando lui cercò di irrompere fra loro fu afferrato, dovette lottare, fu percosso; allora per un attimo udì un suono che non aveva mai sentito prima: la risata di lei.
Un suono sgradevole risuonò agli orecchi di Falk; un sapore di metallo gli riempì la bocca. La sua testa ondeggiò quando provò ad alzarla, gli occhi non riuscivano a vedere distintamente, e non pareva libero di muoversi. Finalmente si accorse che si stava destando da uno stato d'incoscienza, e pensò che se non si poteva muovere era perché lo avevano ferito o drogato. Poi invece si accorse che i polsi erano ammanettati con una corta catena, e così le caviglie. Ma l'ondeggiare del suo cervello peggiorò. Ora una voce profonda gli rimbombava negli orecchi, ripetendo instancabilmente la stessa parola: ramarren-ramarren-ramarren. Lottò, gridò, cercando di liberarsi da quella voce rombante che lo riempiva di terrore. Lampi gli accecarono gli occhi e attraverso il suono che gli rimbombava nella testa sentì qualcuno urlare con una voce che era la sua: — Non sono…
Quanto ritornò in sé era tutto profondamente tranquillo. La testa gli doleva, e non poteva ancora vedere distintamente; ma alle braccia e alle gambe non c'erano più manette, se mai c'erano state, e sapeva che era protetto, tenuto al riparo, curato. Si sapeva chi era e lo trattavano con riguardo. I suoi stavano venendo a cercarlo; qui era al sicuro, curato premurosamente, lo amavano e non doveva fare altro che dormire e riposare, dormire e riposare, mentre il dolce profondo silenzio gli mormorava teneramente nella testa marren-marren-marren…
Si svegliò. Gli ci volle non poco tempo, ma alla fine si svegliò e riuscì a sedersi. Per vincere il senso di vertigine che il movimento gli aveva causato per un po' dovette tenere la testa dolorante tra le braccia; dapprima fu consapevole soltanto di essere seduto sul pavimento di una stanza, un pavimento all'apparenza caldo e flessibile, quasi morbido, come il fianco di una bestia enorme. Poi alzò la testa, mise a fuoco lo sguardo e si guardò attorno.
Era solo, in mezzo a una stanza così irreale che rintuzzò lo stordimento. Nessun mobile. Muri, pavimento, soffitto erano tutti dello stesso materiale traslucido che pareva soffice e ondeggiante come molti strati di pallidi veli verdi, ma al tocco era resistente e levigato. Gli strani intagli e increspature e pieghe che formavano ornamenti per tutto il pavimento non risultavano affatto al tocco della mano; erano disegni ingannevoli, oppure stavano sotto una superficie trasparente e liscia. Gli angoli dove si incontravano le pareti erano svisati dalle illusone mistificazioni ottiche di decorazioni incrociate e pseudoparallele; verificare se gli angoli fossero retti richiedeva uno sforzo di volontà, che forse era uno sforzo di auto-inganno, perché, dopo tutto, potevano anche essere retti. Ma nessuna di queste disorientanti sottigliezze delle decorazioni lo confondeva quanto il fatto che la stanza fosse tutta traslucida. Vagamente, e con l'effetto di guardare nella profondità di un pozzo verdissimo, sotto di lui poteva intravedere un'altra stanza. Sopra di lui una chiazza di luce che poteva essere la luna, confusa e con una sfumatura verde per uno o più soffitti intermedi. Attraverso una delle pareti della stanza erano chiaramente visibili strisce e chiazze lucenti, e riusciva a individuare il movimento delle luci degli elicotteri e degli aerei. Attraverso le altre tre pareti queste luci esterne erano molto più fievoli, offuscate dalla velatura di altre pareti, corridoi, stanze. In queste stanze si muovevano forme. Riusciva a vederle, ma era impossibile identificarle; sembianze, abiti, colori, profili, tutto diventava indistinto. Da qualche parte nelle profondità verdi una chiazza d'ombra improvvisamente prese a diminuire, si fece più verde, più pallida svanendo poi nell'indistinto della vaghezza. Visibilità senza discriminazione, solitudine senza isolamento. Era straordinariamente bello questo velato bagliore di luci e forme attraverso piani di verde appena abbozzati; e straordinariamente inquietante.