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«In un mondo diverso.» Si mosse come se se ne volesse andare.

«È ancora lo stesso mondo, John.»

«E va bene, diglielo, a quelli.»

Passò Hunter. «La stiamo tirando fuori.»

«Chi?» Fleming distolse con sollievo lo sguardo da Judy.

«La ragazzina… Fuori dalla sua tenda a ossigeno.»

«Possiamo venire anche noi?» chiese Judy.

«Questa è un’occasione speciale: una festa d’inaugurazione.» Hunter le rivolse un sorriso stereotipato e allusivo. Poi entrò nell’altra stanza. Fleming lo guardò con amarezza.

«In ogni pacchetto, omaggio di mostri viventi, grandezza naturale.»

Judy si sorprese a ridacchiare. Sentiva che d’improvviso si erano riavvicinati di chilometri.

«Detesto quell’uomo, è così adulatore.»

«Spero che la uccida,» disse Fleming. «Forse come medico vale abbastanza poco.»

Passarono insieme nel laboratorio. Hunter, sorvegliato dalla Dawnay, stava dando istruzioni per l’apertura della parte inferiore della tenda a ossigeno. Sotto la tenda c’era una stretta lettiga, che due assistenti spinsero fuori delicatamente. Tutti gli altri si disposero in cerchio mentre il lettino scivolava fuori con la creatura, la fanciulla ormai adulta, su di esso: prima i piedi, coperti da un lenzuolo, poi il corpo, pure coperto. Giaceva supina, e quando il suo volto venne scoperto, Judy rimase senza fiato. Era un volto forte e bello, dagli alti zigomi e dai larghi lineamenti baltici. I suoi capelli, lunghi e chiari, erano sparsi sul cuscino, gli occhi chiusi, e respirava placidamente come se dormisse. Sembrava un’edizione bionda e purificata di Christine.

«È Christine!» sussurrò Judy. «Christine!»

«Non può essere,» disse Hunter bruscamente.

«C’è una rassomiglianza superficiale,» ammise la Dawnay.

Hunter l’interruppe. «Abbiamo fatto un’autopsia sull’altra ragazza. Inoltre, quella era bruna.»

Judy si rivolse a Fleming.

«Ma che scherzo è?»

Fleming scosse il capo. «Non lasciatevi ingannare. Non lasciate che inganni nessuno di voi. Christine è morta. Christine era solo uno schema.»

Per un momento nessuno parlò; la Dawnay prese il polso della ragazza e si chinò a guardarla in viso. Gli occhi della ragazza si aprirono, guardarono vacuamente il soffitto.

«Che vuoi dire?» chiese Judy. Le sembrava di rivedere Christine, morta, eppure quella creatura aveva qualcosa di simile a lei, viva.

«Voglio dire,» spiegò Fleming, come se rispondesse a tutti loro, «che la macchina ha preso un essere umano e ne ha fatto una copia. Si è solo sbagliata nel registrare alcune cose, il colore dei capelli, per esempio ma, in linea di massima, ha fatto un buon lavoro. Si può tradurre in cifre l’anatomia umana. Ed è quanto ha fatto; e poi si è servita di noi per ritradurle.»

Hunter guardò la Dawnay e accennò agli assistenti di portare la lettiga in un’ala adiacente.

«Ad ogni modo, ci ha dato quello che volevamo,» disse la Dawnay.

«Davvero? È il cervello che conta, il corpo non ha importanza. Non ha creato un essere umano… Ma una creatura straniera che sembra un essere umano.»

«Il dottor Geers ci ha detto la sua teoria.» Hunter si allontanò per assistere al risveglio della ragazza. La Dawnay esitò un attimo prima di seguirli.

«Può essere che lei abbia ragione,» ammise, «e in tal caso sarà ancora più interessante.»

Fleming si controllava con sforzo visibile. «Cosa intendete farne?»

«La educheremo.»

Fleming si volse e uscì dal laboratorio, per tornare alla sala del calcolatore; Judy lo seguiva.

«Ma cosa c’è di male?» chiese Judy. «Chiunque altro…»

Si volse verso di lei. «Ogni volta che un’intelligenza superiore ne incontra una inferiore, la distrugge. Ecco cosa c’è di male. Gli uomini dell’età del ferro hanno eliminato quelli dell’età della pietra; i Visipallidi hanno sterminato gli Indiani. E cosa accadde di Cartagine quando i Romani decisero di farla finita?»

«Ma è male, questo, a lungo andare?»

«È male per noi.»

«E perché questa creatura dovrebbe?…»

«I forti sono sempre spietati con i deboli.»

Judy gli posò timidamente una mano sul braccio. «Allora i deboli farebbero bene a unirsi.»

«Avresti dovuto pensarci prima,» rispose lui.

Judy pensò che era meglio non insistere; tornò alla sua vita lasciandolo alle sue preoccupazioni e ai suoi dubbi.

Quell’anno non si ebbe una primavera precoce. Il cupo grigiore continuò per tutto aprile, intonandosi agli umori neri della base. A parte l’esperimento della Dawnay, non c’era nulla che andasse dritto. Il personale permanente di Geers e la squadra per lo studio dei missili lavoravano indefessamente, senza alcun risultato apprezzabile: non c’erano mai stati tanti lanci di prova come allora, ma non ne venne fuori nulla di soddisfacente. Dopo ogni tentativo fallito le nuvole dell’Atlantico tornavano a gravare sul promontorio, a mostrare che nulla sarebbe mai migliorato.

Solo la fanciulla fioriva come una pianta esotica in una serra. Un’ala del laboratorio della Dawnay venne attrezzata a nursery, con un appartamento per la ragazza. Qui si occupavano di lei e la preparavano per la sua parte, come la principessa di una fiaba. La chiamarono Andromeda, dal nome del suo luogo di origine, e le insegnarono a mangiare, a bere, a star seduta eretta e a muoversi. In principio era piuttosto lenta a imparare come usare il suo corpo: come diceva la Dawnay il suo sviluppo fisico non era come nei bambini normali. Ma fu presto evidente che poteva apprendere a una velocità prodigiosa. Non era mai necessario ripeterle due volte la stessa cosa: una volta comprese le possibilità di qualcosa, le padroneggiava senza esitazione e senza sforzo.

Fu lo stesso per quel che riguardava il parlare. All’inizio sembrava che non ne sapesse assolutamente nulla: non aveva mai pianto, come fanno i bambini, e bisognò insegnarle a parlare come a un bambino sordo, rendendola conscia delle vibrazioni delle corde vocali e del loro effetto. Non appena però capì il fine del linguaggio, lo imparò con facilità estrema, man mano che le venivano insegnate le parole. Nel giro di poche settimane era diventata una persona che parlava, in grado di comunicare.

Sempre nel giro di poche settimane, aveva imparato a muoversi come un essere umano, un po’ rigidamente, come se il suo corpo funzionasse a istruzioni e non per suo istinto, ma con grazia e senza goffaggine. Per lo più era confinata in compagnia della sua scorta, anche se, quando proprio non diluviava, veniva portata ogni giorno in brughiera, in un’auto coperta, e le veniva permesso di camminare e di prendere un po’ d’aria sotto scorta armata, però lontana dagli occhi di chiunque, sia della base che di fuori.

Non si lamentava mai, qualunque cosa le facessero. Accettava le visite mediche, l’insegnamento, la sorveglianza continua, come se non avesse volontà o desideri propri. In realtà, non dava a vedere alcuna emozione: mostrava, sì, fame prima di un pasto, e stanchezza alla fine di una giornata, ma comunque era sempre stanchezza fisica, mai mentale. Era sempre gentile, sempre remissiva e molto bella, si muoveva come in un sogno.

Geers e la Dawnay organizzarono la sua educazione con una velocità che condensava tutta una cultura universitaria in un periodo da corso estivo. Quando ebbe afferrato le basi dell’aritmetica decimale, non ebbe più difficoltà con la matematica. Sarebbe potuta essere una macchina calcolatrice: si districava tra le cifre con la logica infallibile di un prontuario di calcoli, e non sbagliava mai. Sembrava capace di tenere a mente senza alcuno sforzo le progressioni più complesse. Per il resto, veniva imbottita di nozioni come un’enciclopedia. Geers e i professori che furono mandati a Thorness in un’interminabile, impressionante processione accademica — non per istruire direttamente la ragazza, poiché la sua esistenza era segreta, ma per guidarne gli istruttori — gettavano le basi di una cultura generale e non specializzata, cosicché alla fine di quel corso e di quell’estate, in teoria sapeva del mondo tanto quanto un laureato intelligente e ricettivo. Quel che le mancava era ogni senso di esperienza umana, ogni atteggiamento spontaneo verso la vita. Benché fosse vivace e, in giusta misura, comunicativa, pareva che camminasse e parlasse in stato di sonnambulismo.