«Che diavolo succede?» chiese Geers.
Fleming si volse senza rispondere precipitandosi verso la prima ala del laboratorio, dove erano ospitati la creatura e il suo serbatoio. Dai fili di collegamento sopra di esso veniva del fumo. Quando li tirò fuori, i capi erano anneriti, e ne pendevano brandelli di tessuto animale carbonizzato. Guardò nel serbatoio e le sue labbra si strinsero in una linea sottile.
«Cosa gli è successo?» La Dawnay si precipitò nella stanza seguita da Geers.
«È stato folgorato dalla corrente.» Fleming mostrò i fili. «C’è stato un altro scoppio ed è rimasto ucciso.»
Geers diede un’occhiata all’interno del serbatoio e si ritrasse disgustato.
«Cosa ha fatto agli elementi di controllo?» chiese.
Fleming lasciò cadere i resti carbonizzati dei cavi. «Non ho fatto nulla. Il calcolatore sa come regolare il suo voltaggio, sa come bruciare i tessuti, sa come uccidere.»
«Ma perché?» chiese Geers.
Istintivamente volsero il capo verso la porta della sala del calcolatore. Sulla soglia era la ragazza.
«Perché è stata lei.» Fleming si diresse verso Andromeda, minaccioso, la mascella irrigidita. «Glielo ha appena detto, vero? Adesso sa di avere uno schiavo migliore. Non ha più bisogno di questa povera creatura. È questo che ha detto, vero?»
Gli ricambiò uno sguardo privo di espressione. «Sì.»
«Vede?» Si rivolse a Geers. «Abbiamo un’assassina. Può darsi che quella di Bridger sia stata una disgrazia; può darsi che quello di Christine sia stato un incidente, anche se io lo chiamerei piuttosto omicidio preterintenzionale, ma questo è stato un vero omicidio premeditato.»
«Era solo una forma di vita primitiva,» osservò Geers.
«Ed era inutile.» Si girò verso la ragazza. «Vero?»
«Era di troppo,» confermò lei.
«E la prossima volta potrebbe essere lei di troppo, o io, o chiunque altro di noi.»
Il viso della ragazza continuava a essere privo di espressione e a non registrare emozione alcuna. «Abbiamo solo elminato del materiale superfluo.»
«Abbiamo?…»
«Il calcolatore e io.» Si portò la mano alla fronte. Fleming chiuse gli occhi.
«Siete la stessa cosa, vero? Un’intelligenza divisa in due.»
«Sì,» ammise lei, priva di intonazione. «Io capisco…»
«Allora capisca anche questo.» La voce di Fleming, agitata, salì di tono, e il giovane avvicinò il viso a quello di lei: «Questa è un’informazione: uccidere è male.»
«Male? Che cos’è ‘male’?»
«Lei ha parlato di uccidere, poco fa,» disse Geers.
«Oh, Dio,» sbottò Fleming esasperato. «Ma qui dentro non c’è proprio nessuno col cervello a posto?»
Fissò Andromeda ancora per un istante, poi uscì dal locale quasi di corsa.
Bouldershaw Fell era sempre lo stesso, come quando Reinhart vi aveva condotto Judy per la prima volta. Sulle cicatrici lasciate nella brughiera dagli scavi, erano cresciute erbe ed eriche, e lungo i muri degli edifici correvano nere strisce, lungo le grondaie, dove era traboccata l’acqua per le bufere invernali: ma il triplice arco posava ancora immobile sulla sua grande conca, e, all’interno dell’osservatorio, macchinario e personale continuavano a svolgere il loro lavoro silenzioso e metodico. Il banco di controllo era ancora affidato a Harvey, e ai suoi lati si alzavano ancora i banchi di direzione e gli apparecchi di calcolo fiancheggiando la larga finestra: le fotografie delle stelle ricoprivano ancora le pareti, sebbene non più fresche e recenti come una volta.
Solo indizio dei gravi fatti che li preoccupavano era un immenso planisferio sotto vetro sul quale erano segnate a inchiostro di china le traiettorie dei missili in orbita. Esso tradiva ciò che la calma esteriore dell’osservatorio nascondeva, l’angoscia e la febbre con cui osservavano la minaccia del cielo sopra di loro crescere, di giorno in giorno, spietatamente. Reinhart parlava di questa mappa come della «scritta murale» e lavorava giorno e notte con la squadra dell’osservatorio e disegnava, non appena andava in orbita, ogni nuova traccia, inviando rapporti urgenti e pessimistici a Whitehall.
Nei mesi precedenti erano stati osservati quasi un centinaio di questi sinistri ordigni, impossibili a identificare, ed era stato stabilito che la loro area di lancio si trovava all’interno di un triangolo di parecchie centinaie di miglia, tra la Manciuria, Vladivostok e le isole settentrionali del Giappone. Nessuno dei paesi circonvicini lo ammetteva. Come diceva Vandenberg, potevano essere di tre qualsiasi delle potenze appartenenti alle Nazioni Unite.
Vandenberg andava di frequente in visita al telescopio e aveva incontri lunghi e infruttuosi con Reinhart. Tutto quello di concreto che potevano dedurre dalle loro scoperte era che si trattava di ordigni a reazione, lanciati da circa quaranta gradi di latitudine nord e da circa centotrenta a centocinquanta gradi di longitudine est, e che viaggiavano sopra la Russia, l’Europa occidentale e le Isole Britanniche, alla velocità di circa sedicimila miglia all’ora, e tra le trecentocinquanta e le quattrocento miglia di altezza. Dopo aver sorvolato l’Inghilterra per lo più passavano sopra l’Atlantico del nord, sulla Groenlandia e sulle regioni settentrionali del Canada, concludendo probabilmente la loro traiettoria sulla medesima area, sul mare della Cina settentrionale. Qualunque rotta percorressero, venivano fatti deviare perché passassero sull’Inghilterra e sulla Scozia: ovviamente erano telecomandati e guidati con molta precisione su questo piccolo bersaglio. Sebbene non si sapesse nulla delle loro dimensioni e della loro forma, emettevano un segnale di direzione, ed erano evidentemente abbastanza grandi da trasportare una carica nucleare.
«Non so quale ne sia lo scopo,» ammise Reinhart. Questi apparecchi lo ossessionavano. Per quanto infelice fosse per come erano andate le cose a Thorness, era ora completamente assorbito da questo nuovo e terrificante andamento degli avvenimenti.
Vandenberg aveva teorie convincenti e ragionevoli. «Il loro scopo è questo: qualcuno in Oriente vuole che noi si sappia che essi ci sono tecnicamente superiori. Ci sventolano davanti al naso questi missili per mostrare al mondo che non abbiamo la possibilità di render loro pan per focaccia. È una nuova forma di guerra fredda.»
«Ma perché proprio su questo paese?»
Sembrava che Vandenberg fosse un po’ dispiaciuto per il professore. «Perché siete abbastanza piccoli e importanti per rappresentare una specie di ostaggio. Quest’isola ha sempre rappresentato un buon bersaglio.»
«Be’…» Reinhart accennò con il capo alla carta murale. «Qui ci sono le prove. L’Occidente non si prepara forse a presentare la questione al Consiglio di Sicurezza?»
Vandenberg scosse il capo. «No, finché non possiamo negoziare da una posizione di forza. Gli piacerebbe che ci rivolgessimo piagnucolando alle Nazioni Unite, e ammettessimo la nostra debolezza. Allora ci avrebbero in loro potere. La prima cosa di cui abbiamo bisogno, invece, è qualche mezzo di difesa.»
Reinhart sembrava scettico. «Cosa intendete fare?»
«Intendiamo muoverci il più in fretta possibile. Geers sostiene…»
«Oh, Geers!»
«Geers sostiene,» Vandenberg ignorò l’interruzione, «che se possiamo far lavorare quella ragazza in collaborazione con il suo calcolatore, professore, potremo ottenere piuttosto in fretta qualche idea.»
«Quello che era il mio calcolatore,» corresse Reinhart amaramente. «Le auguro ogni bene.»
La notte dopo la partenza di Vandenberg arrivò Fleming. Era tardi e Reinhart stava ancora lavorando, cercando di determinare l’origine dei segnali da terra che facevano cambiare il corso ai satelliti in orbita, quando sentì il rumore dello scappamento dell’auto di Fleming. Per Fleming era un po’ come tornare a casa; quella stanza familiare, Harvey al banco di controllo, la figura onesta e paterna del professore che lo aspettava. Dei tre, Fleming sembrava il più distrutto.