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Gli occhi di Catherine si erano ormai abituati al buio, e scorgeva i rami degli alberi attorno a sé, nonché una vaga immagine del terreno sotto i piedi. Stanca di perdersi ma desiderosa di trattenersi ancora nel bosco, girava in cerchio, senza perdere di vista le remote luci dorate della casa. Sbatteva i palmi contro gli alberi oltrepassandoli, ruotandoci attorno come una bambina con i pali, le mani deliziate dalla scabrosità della corteccia.

Una mezz’ora dopo si accorse che le scoppiava la vescica — tutti quei bicchieri di succo di frutta! — e si accovacciò su una radura a fare pipì. L’urina frusciava tra le foglie, e qualcosa di non meglio identificato sfregava dolcemente contro il sedere nudo.

Speriamo che non mi salti niente dentro mentre sono così esposta, pensò, e intanto, nel castello, le luci si spegnevano.

La mattina dopo Ben Lamb, che aspettava l’havermout, alzò lo sguardo speranzoso sentendo entrare qualcuno in cucina. Ma era solo Julian, che andava a prendere il caffè.

— Ho fatto una scoperta sensazionale ieri sera, — disse Julian, mentre il bollitore lanciava un fischio indolente.

— Mm? — fece Ben.

— Un’edizione originale delle canzoni di Massenet, stampata nel 1897, e ne include alcune che di sicuro non hanno mai visto la luce del giorno; stava proprio lì, poggiata sullo scaffale. Nessuno l’ha mai degnata di uno sguardo!

— Come fai a saperlo?

— Le pagine erano ancora intonse. Ma ci pensi? Totalmente… vergine!

— E tu lei hai tagliate, Julian?

— Ci puoi scommettere, — disse Julian, con un sorriso a trentadue denti. — Ed è stata una sensazione magnifica, te l’assicuro —. Stava sbirciando nel frigorifero quando Dagmar, vestita di tutto punto e con Axel già nello zaino, passò davanti alla cucina.

— Sei pregato di lasciare qualche uovo per gli altri, — gli urlò da sopra la spalla.

Julian contorse il viso in un ghigno malefico rivolto a Dagmar, che nel frattempo usciva sbattendo la porta.

— Jawohl, mein Kommandant!

Ben sospirò. Il Coro Courage era vicino al limite della sua capacità di coesistere in armonia, quantomeno in una casa che sembrava una sauna. Erano solo le 10.30 del mattino e già si soffocava; non erano certo le condizioni ideali per superare gli insidiosi labirinti vocali tracciati per loro dal signor Fugazza. Stando a un numero di importazione del «Times» che Dagmar aveva preso a Martinekerke il giorno precedente, Londra e dintorni erano sferzati da una pioggia battente: quando si sarebbero decise quelle nuvole ad arrivare anche laggiù?

Roger entrò in cucina, reduce da un’altra telefonata.

— Wim Waafels, l’artista video, viene qui oggi pomeriggio, — disse con aria mesta.

— C’è qualche problema? — si informò Ben.

Roger si passò le dita fra i capelli, due grosse chiazze di sudore che già gli scurivano la camicia in corrispondenza delle ascelle mentre cercava un modo per sintetizzare i suoi motivi di apprensione.

— Per dirla in due parole, ho idea che Dagmar non stravederà per lui, — disse alla fine.

— Oooh, — sbottò Julian con fare teatrale, — sai che novità! Ho trovato l’anima gemella. Non sai mai le fortune che ti riserva un grande bosco.

Roger si trascinò verso il forno, stanco di tenere insieme la sua famigliola, giorno dopo giorno. Si versò una tazza di tè dal bollitore che era rimasto trascurato sul fuoco.

— Qualcuno ha visto il nostro soprano? — chiese, cercando di non alterare la voce.

Ben scosse la testa. Julian lo guardò dritto in faccia, e vide uno sguardo che gli veniva particolarmente facile riconoscere: quello di un uomo che si chiede dove la moglie abbia passato la notte.

— È andata a fare due passi, — disse Julian. — Dopo l’ora delle streghe.

Roger sorseggiò il tè, un uomo infelice.

Poi, qualche minuto dopo, la porta d’ingresso si aprì rumorosamente e si sentirono risuonare dei passi nell’ingresso. Julian indurì la mascella aspettandosi un’altra invasione tedesca.

Invece, Catherine entrò in cucina. Camminava lentamente, con aria sognante, senza fretta di dedicare la sua attenzione agli uomini. I capelli arruffati erano un nido d’uccelli, la pelle colorita, gli occhi socchiusi. Minuscole foglie e pezzetti di ramo erano rimasti attaccati ai polpacci dei fuseaux.

— Ti senti bene, Kate? — chiese Roger.

Catherine sbatté gli occhi, accorgendosi per gradi dell’esistenza del marito.

— Sì, sì, certo, — rispose in tono spensierato. — Sono andata a fare una passeggiata, tutto qui.

Raggiunse il forno con passo felpato, dando dei colpetti alla spalla del marito nel passargli accanto, perché il poveretto aveva un’aria così sconsolata.

— Qualcuno vuole un po’ di porridge? — chiese, trovando la faccia di Ben esattamente dove si aspettava che fosse e contemplandola con un sorriso.

♫♫

Benché ci fossero due ore da ammazzare prima dell’arrivo di Wim Waafels, il Coro non cantò. Per tacito accordo, stavano concedendo un po’ di riposo al Partitum Mutante mentre il tempo si esprimeva al peggio. Ben sedeva accanto alla finestra cercando di farsi passare il mal di testa e l’indigestione; gli altri ciondolavano per casa, gingillandosi con strumenti musicali, libri e accessori vari. Julian suonava Für Elise di Beethoven al piano, a ripetizione, inceppandosi sempre allo stesso punto; Catherine, accovacciata vicino all’arcolaio, tastava le varie parti con fare esitante, cercando di capire se funzionava o era solo ornamentale. Roger, seduto al computer, dava una scorsa allo spartito del 2K + 5 di Paco Barrios, ricordando a se stesso che la vita sarebbe continuata dopo il Partitum Mutante.

All’ora prevista per l’arrivo del signor Waafels, i componenti inglesi del Coro Courage — sempre per tacito accordo — si erano riuniti, decisi a prendere con filosofia quella visita e gli eventuali esiti. Solo Dagmar non si uniformava allo spirito imperante. Qualcosa nei modi di Roger la induceva a sospettare che qualcuno fosse sul punto di far vibrare le corde eccessivamente tese della sua sopportazione.

— Hai parlato con questo tizio, vero? — si informò con circospezione.

— Al telefono, sì, — disse Roger.

— È uno sciroccato?

— No, no… — la rassicurò Roger in tono vivace. — A sentirlo sembra… uno che sa il fatto suo, davvero.

— Insomma è un tipo a posto?

— Ha… ha un forte accento olandese. Molto più di Jan van Hoeidonck, per esempio. È giovanissimo, da quanto ho capito. Dovrebbe avere la tua età. Non è un vecchio parruccone come noi, eh, eh, eh.

Dagmar strinse gli occhi con disprezzo. Aveva sempre nutrito grande rispetto per Roger Courage, ma in quel momento le ricordava i direttori del Dresden Staatsoper.

Si udì un veicolo avvicinarsi allo Château de Luth, benché fosse a mezzo miglio di distanza, invisibile.

— Dev’essere lui, — disse Roger, defilandosi elegantemente da Dagmar per piazzarsi alla finestra. Ma quando il veicolo divenne visibile, rivelò di non essere un furgoncino né una macchina, bensì una motocicletta, che rombava attraverso l’immobilità del bosco di Martinekerke in una caligine di benzina, il conducente bardato di pelle grigia, guanti tempestati di borchie e casco argentato, come un soldato medievale in cerca di Thierry la Fronde e della sua banda di allegri compari.