Quando l’ebbero invitato ad accomodarsi, Wim Waafels si rivelò, almeno dal punto di vista fisico, un esemplare leggermente più impressionante di Pino Fugazza; ma del resto c’era da aspettarselo. Una volta di più, mentre si levava il casco e la giacca di pelle nel salone del castello, vari componenti del Coro Courage meditarono fra sé sull’infinita portata della bruttezza umana.
Era un giovanotto — venticinque anni, per sua stessa ammissione, anche se ne dimostrava diciassette — con una goffa postura da adolescente sovrappeso. Indossava pantaloni a coste color ocra, scarponi militari e una T-shirt smisurata e logora con sopra impresso l’ingrandimento di un fotogramma tratto da Un Chien Andalou di Buñueclass="underline" la lama del rasoio che incombe sull’occhio della donna. Gli occhi di Waafels, quelli, erano iniettati di sangue e affossati, e sprizzavano un’intelligenza schietta ma alquanto settoriale. Il sudore e qualche brufolo luccicavano sul faccione simile a una zucca; la testa era sormontata da un cespuglio di capelli quasi incolore scolpiti con il gel.
— Ehm… si sente più caldo o più fresco a guidare una motocicletta? — chiese Catherine, sforzandosi di fare conversazione mentre gli porgeva un grosso bicchiere di succo d’arancia.
— Tutti e tue, — rispose lui.
Pur provvisto di un buon vocabolario, Wim aveva un accento così pronunciato che sembrava aver imparato la lingua servendosi di tecniche completamente diverse rispetto a quelle adottate dagli altri olandesi che avevano conosciuto — CD rom interattivi, forse, o quei marchingegni per tradurre fotografati sugli opuscoli che cadono aprendo il «Radio Times».
Più preoccupanti dell’accento erano il rossore e il balbettio che lo colsero quando gli presentarono Dagmar: evidentemente aveva un debole per le giovani tedesche muscolose e con il seno grande, anche se non si mostravano particolarmente amichevoli. Forse aveva scambiato lo sguardo in cagnesco di Dagmar per il broncio finto pericoloso delle pupattole di Mtv.
— Ciao, zono Wim, — le disse.
— Magnifico. Vediamo il video, — disse Dagmar.
Esaurite le insulsaggini, si misero prontamente al lavoro. Wim aveva portato con sé un video delle sue immagini per il Partitum Mutante. Sul dorso della cassetta, aveva scarabocchiato con un pennarello argentato «PArTiTEm M!» Questo, ancor più dell’aspetto del signor Waafels, fece suonare il campanello d’allarme nei crani surriscaldati del Coro Courage.
Ci fu un leggero ritardo provocato dal fatto che il televisore non era collegato al videoregistratore. Una stranezza che indusse Wim a inarcare un sopracciglio: l’unica spiegazione plausibile era che il Coro Courage avesse giocherellato con cavi e spine usando campionature digitali, tastiere Midi o altri sofisticati strumenti tecnologici. L’idea che il Coro Courage semplicemente non guardasse il televisore non lo sfiorò nemmeno.
Wim Waafels collegò gli apparecchi con gesti pratici e disinvolti, sfiorando nei limiti del possibile una certa grazia fisica. Dopodiché chiese che venissero chiuse le tende affinché la luce del giorno non compromettesse la nitidezza delle immagini. Roger eseguì, o quantomeno ci provò.
— Non zi può farre più zcurro di cozì? — si informò Waafels tutto agitato, mentre il sole at-tutito accendeva un bagliore ambrato nella stanza.
Roger armeggiò con le tende, tentando vari sistemi.
— Questo è il massimo del buio che riusciamo a ottenere, — disse.
Si inginocchiarono tutti intorno al televisore, tranne Ben, impedito com’era dalla stazza imponente; prese posto sul divano, dicendo che ci vedeva benissimo anche da quella distanza.
— Ok, — dichiarò Wim. — Il pupplico è qui, foi ziete zul palco, le luci zi zpencono… puio!
La videocassetta cominciò a ronzare dentro il lettore, e lo schermo, dapprima niveo, diventò di un nero assoluto. E tale rimase per quello che sembrò un mucchio di tempo, anche se forse non furono più di trenta secondi — un minuto al massimo.
— Dofete immacinare che ztate cantanto, naturalmente — consigliò Wim Waafels.
— Naturalmente, — disse Julian, avvicinandosi un po’ più al televisore per non vedere la faccia di Dagmar.
Il nero dello schermo si andava finalmente attenuando un po’ al centro, assumendo i toni del rosso violaceo — o forse era un’illusione ottica dovuta all’affaticamento della vista. Ma no: qualcosa stava decisamente prendendo forma in quel punto.
— In principio, l’univerzo era zenza forma, zì? — spiegò Waafels. — Il puio avanza zulla faccia degli apizzi —. Scivolando sulle testine del videoregistratore, il nastro produceva un lieve rumore stridulo che a Catherine faceva accapponare la pelle; quanto avrebbe voluto che Ben intonasse i suoi reboanti mugugni tibetani per dare a quel lugubre vuoto una colonna sonora umana.
Dopo un’eternità, gli amorfi ghirigori simili a inchiostro finalmente si fusero in… che cosa? In una specie di luccicante orifizio color malva.
— Ora, zapete coz’è quezto? — li sfidò Waafels.
Ci fu un silenzio imbarazzato, poi Ben disse in tono stentoreo:
— Io credo di saperlo, — la voce calma e delicatamente risonante. — È il primo piano di una laringe, vista da un laringoscopio.
— Molto pene, molto pene! — disse Waafels, felice di aver trovato un’anima sintonizzata sulla sua lunghezza d’onda. — In principio fu il monto, zì? Il monto che fiene ta tentro le corte focali ti Tio.
Trascorse un’altra eternità mentre la tremula laringe si apriva e si chiudeva, si apriva e si chiudeva, scintillando immersa nei suoi umori. Catherine sentiva la nausea montarle nello stomaco mentre l’immagine si faceva più chiara e più rosa, e lanciò un’occhiata di straforo ai compagni per vedere se avevano la sua stessa sensazione. Roger aveva la faccia irrigidita dalla concentrazione, restio a lasciarsi sfuggire qualche particolare fondamentale se e quando si fosse manifestato. Julian e Dagmar, benché avrebbero detestato sentirselo dire, si somigliavano in modo sorprendente: increduli, a bocca aperta, resi bellissimi dal disprezzo. Catherine moriva dalla voglia di girarsi a guardare Ben, solo che non voleva metterlo in imbarazzo, perciò tornò a dedicare l’attenzione all’apertura di carne spalancata sullo schermo. A quel punto, grazie all’impiego di qualche magia digitale, la laringe cominciò a modificarsi; la plica vocalis così simile a un paio di labbra e la vallecula si stavano trasformando, cellula dopo cellula, nella vulva di una donna in avanzato stato di gravidanza. Poi, con angosciosa lentezza, minuto silenzioso dopo minuto silenzioso, la vagina si dilatò rivelando la testa grigia e lucente di un bambino.
Il Coro Courage non disse una parola mentre il parto a velocità di largo seguiva il suo decorso vivido e scintillante sullo schermo che avevano davanti. Ciascuno, però, dentro di sé sapeva che la durata del Partitum Mutante superava di un soffio la mezz’ora, e il timer sul videoregistratore teneva il conto di ogni singolo secondo.
Quando, dopo tanto, il neonato Adamo o Pianeta Terra o quello che voleva essere prese finalmente a contorcersi venendo alla luce — la scivolata finale al rallentatore quasi insopportabilmente movimentata dopo le immagini precedenti — il Coro Courage riprese a respirare. Presto, lo sapevano, le luci si sarebbero accese.
— Naturalmente, — disse Wim Waafels, mettendo le mani avanti, — cozì l’effetto è completamente diferzo, zu uno zchermo cozì piccolo.
— Non ho dubbi, — disse Roger.
— Nell’ezipizione dal fifo, l’immacine zarà molto molto crante, e foi zarete molto piccoli. Fi… affolcerà.
— Mmm, — fece Roger, come se un capo beduino lo stesse guardando mangiare gli occhi di una pecora a un banchetto delicato da un punto di vista politico.