— Mmm, — concordò Catherine, improvvisamente lieta di avere accanto il marito a suggerirle le mot juste.
Poi, con provvidenziale tempismo, il piccolo Axel si mise a piangere al piano di sopra, e l’uscita di Dagmar dalla stanza fu un fait accompli prima che Wim Waafels avesse occasione di chiederle un parere. Sembrava un po’ abbacchiato per aver perso così di punto in bianco l’unico esponente della sua generazione, ma si rivolse ai componenti più anziani e meno avvenenti del Coro senza malanimo.
— Quezto fi tà un’itea, zpero? — disse a Julian, chiaramente quello più vicino alla sua età dopo Dagmar.
— Altroché, — replicò Julian in tono malizioso. — Sono sicuro che chiunque veda questo suo lavoro così straordinario non lo dimenticherà tanto facilmente. Mi dispiace solo dover stare sul palco anziché tra il pubblico.
Waafels si affrettò ad assicurargli che aveva provveduto anche a questo.
— Farò un fiteo tello zpettacolo, — disse.
— Magnifico! Magnifico! — esultò Julian, dando le spalle a Roger Courage per non lasciarsi inibire dal suo sguardo ammonitore. — Un video all’interno del video. È così postmoderno!
Waafels sorrise timidamente mentre il ghignante Julian gli assestava una pacca sulla spalla.
Più tardi, quando Wim Waafels se ne fu andato e Julian si fu congedato, i Courage si rivolsero a Ben, che esaminava meditabondo le prime due pagine dello spartito del Partitum Mutante.
— Be’, che ne pensi, Ben? — chiese Roger con un sospiro.
— Sono troppo vecchio per vantarmi di sapere qualcosa di video art, — ammise Ben con condiscendenza. — Però c’è una cosetta che mi preoccupa.
Ancora un po’ pallida e smunta dopo il fiotto di placenta al rallentatore, Catherine attese in silenzio che desse voce ai suoi timori.
— Quando è buio pesto, nel nero che precede la nascita del mondo, — meditò Ben, — come facciamo a vedere lo spartito?
♫♫
Il giorno successivo era il penultimo allo Château de Luth, e il Coro lo trascorse in buona parte a litigare.
Il clima inizialmente, nelle brevi ore di frescura mattutina prima che il caldo prendesse il sopravvento, fu abbastanza educato. Catherine preparò la solita colazione a base di havermout per Ben, rasserenata dal piacere di quella muta routine legata al nutrimento. Lui mangiava, lei guardava, mentre il sole inondava entrambi, facendoli brillare come lampadine. Quando l’eccesso di luminosità si rivelò d’intralcio, Catherine strizzò gli occhi ma non smise di guardare, e Ben li mantenne bassi, sorridendo nel vapore del porridge.
Julian era rintanato in camera sua, sicuramente per evitare di riprendere le ostilità della sera precedente con Roger sulla questione Waafels. Roger non aveva gradito il sarcasmo di Julian, convinto che se Waafels ci fosse rimasto male avrebbe pensato che Julian parlasse a nome di tutto il Coro Courage; Julian aveva ribattuto che sperava bene di parlare a nome di tutto il Coro Courage, e se Roger era tanto entusiasta di cantare dentro un paio di labbra grosse come la porta di un fienile faceva meglio a dirlo subito chiaro e tondo.
Sulla scia di quella lite, si era prodotto un curioso mutamento nell’atmosfera del castello, da un punto di vista sonico. Julian aveva sottratto il televisore al pubblico dominio e l’aveva portato a braccia al piano di sopra, sostenendo che se doveva sopportare un’altra notte insonne gli serviva qualcosa che gli impedisse di dare i numeri. E, in effetti, a mezzanotte Catherine aveva sentito, dal proprio letto, i suoni attutiti di litigate e tenere riconciliazioni olandesi al di là della parete. Era un cambiamento rispetto al silenzio arcano, ma non necessariamente gradito.
Quella mattina, pur non sentendo alcun suono televisivo riconoscibile filtrare fino alla cucina, Catherine aveva la sensazione che con tutta probabilità la tv stesse ancora blaterando nelle orecchie di Julian in camera sua, perché il silenzio sembrava in qualche modo privato della sua purezza. C’era un brusio impercettibile, l’equivalente sonoro della caligine che si leva da una fetta di pane bruciato, a offuscare l’accesso di Catherine all’immensità acustica del bosco. Sentiva il bisogno di precipitarsi là fuori, lasciandosi quella caligine alle spalle.
Peccato che Dagmar non volesse andare a fare un giro in bici. Con l’aria di chi non ne può più e ha dormito poco, entrò in cucina senza altro scopo evidente se non quello di controllare che Julian non avesse toccato le uova nel frigo.
— Mi si stanno spaccando i capezzoli, — brontolò, facendo arrossire fino alle orecchie Ben chino sull’havermout dietro di lei. — Prima uno era ancora passabile, adesso nemmeno quello. Oggi deve piovere… deve, deve, deve. E non capisco perché avete lasciato andar via quel coglione di Wim Waafels senza rompergli il grugno.
Stufa di saltare di palo in frasca, sbatté lo sportello del frigorifero e uscì dalla cucina pestando i piedi.
Catherine e Ben rimasero seduti in silenzio sentendo che Dagmar tendeva un’imboscata a Roger nella stanza accanto mettendosi a litigare con lui. La voce della ragazza tedesca arrivava forte e chiara, un rabbioso contralto di penetrante musicalità. Il baritono di Roger era più attutito, le dolenti parole di difesa perdevano parte della chiarezza passando attraverso le pareti.
— Non si è mai ventilata l’ipotesi, — stava dicendo, — di una scelta da parte nostra…
— Io sono una cantante, — gli ricordò Dagmar. — Non una bambola per il sollazzo di qualche sciroccato.
Il ronzio ragionevole della voce di Roger: —…evento multimediale… noi siamo solo uno di quei media… problema con tutte le collaborazioni… compromesso… non sono cattolico, eppure canto gli accompagnamenti alla messa latina…
— Ci risiamo, mi sembra di essere tornata al Dresden Staatsoper!
E andarono avanti, finché gli ascoltatori smisero di far caso alle parole. Catherine e Ben lasciarono invece che il suono delle voci dei litiganti sciabordasse in sottofondo, una congerie avanguardistica di Sprechstimme.
Poco dopo ecco scendere Julian che, sentito odore di sangue, lasciò perdere caffè e pane tostato per unirsi alla rissa.
Per Roger era troppo: temendo colpi bassi, convocò una riunione del Coro al gran completo, e i cinque si sedettero nel salone, dove avevano cantato senza posa il Partitum Mutante, a bisticciare.
— Se vogliamo evitare di prendere altre fregature come questa in futuro, — dichiarò Julian, — l’unica è diventare proibitivi per le tasche dei matti.
— Si può sapere che intendi dire, Julian? — sospirò Roger.
— Cantare un repertorio molto più popolare e imporre prezzi più alti sui biglietti. Fare più registrazioni, rendere le nostre belle facce note a cani e porci. Così, quando ci offrono un incarico, possiamo scegliere. E conservare una specie di diritto di veto. Niente trafficanti d’armi italiani, niente invasati di ginecologia.
— Ma, — disse Roger trasalendo, — la nostra forza non è sempre stata nel nostro coraggio? Cioè, nella nostra… um… disponibilità a mostrarci aperti verso le novità?
Catherine si lasciò sfuggire una risatina, ripensando alla vulva spalancata che aspettava solo di «affolcerli».
— Forse Kate, a suo modo, ci sta ricordando la necessità di non perdere il senso dell’umorismo, — suggerì Roger, ormai in preda alla disperazione.
— No, no, stavo solo… non importa, — disse Catherine, senza smettere di ridacchiare dietro la mano. Roger la fissava diffidente, implorante: lei sapeva benissimo che stava cercando di stabilire quanto fosse matta in quel momento, con quanta brutalità potesse voltargli le spalle. Lui aveva bisogno di averla al suo fianco, mentalmente fragile o meno; aveva bisogno che vedesse la realtà come la vedeva lui, indipendentemente dalla malignità con cui i suoi demoni interiori le impedivano di esprimerla in termini ragionevoli. Lei non aveva il coraggio di dirgli che non esistevano più demoni interiori che la inducessero a ridere; era solo che in quel momento aveva per la mente cose più importanti del Coro Courage.