— I King’s Singers hanno avuto un successo strepitoso all’Albert Hall, — insistette Julian.
A questo Roger s’inalberò; significava mettere il dito nella piaga. — Stammi a sentire, non mi sono avventurato con la mia barchetta nel pericoloso mare del canto a cappella, — fece notare stizzito, — per cantare Obla-di, Obla-da a una massa di filistei dai buffi cappellini.
— Una massa sterminata, — gli ricordò Julian. — Quanti verranno a sentire noi al Benelux Contemporary Music Festival?
— Per l’amor del cielo, Julian, stai forse dicendo che dovremmo cantare Andrew Lloyd Webber e Raindrops keep falling on my head come se fosse un mottetto?
— E bravo il signor Courage: reductio ad absurdum! — Julian si stava impennando in modo preoccupante, sembrava tarantolato. — Il mio umiliiiissimo consiglio è di prendere anche solo in considerazione qualcosa che potrebbe piazzare qualche culetto relativamente intelligente sui posti a sedere. I Beatles, per quanto la cosa possa sconcertarti, ispirano molto più amore di Pino Fugazza e del signor Waffels messi assieme, sempre che sia possibile immaginare una simile accoppiata senza uno sbocco — annaspò per riprendere fiato — di vomito.
— Sì, ma…
— Lo sai che cosa ci varrebbe un grande trionfo? — tuonò Julian, ormai fuori di sé. — La Bohemian Rhapsody dei Queen, arrangiata per cinque voci.
Dagmar sbuffò rumorosamente.
— Credete che scherzi? — esclamò Julian, che aveva un diavolo per capello. — Sentite qua! — E sbottò a cantare un passo della Bohemian Rhapsody, sciorinando tutta la sua estensione vocale che andava da un orribile finto basso a un falsetto di spietata precisione: Bis-mil-lah! No-o-o-o! We will not let you go — Let him go-o-o-o! Will not let you go — Let him go-o-o-o! No, no, no, no, no, no, no — Mama mia, mama mia, mama mia let me go…
Fortuna volle che la furia di Julian svaporasse prima di arrivare a quel Beelzebub has a devil put aside così familiare per averlo sentito tante volte sulla sua segreteria telefonica, e si lasciò crollare sulle ginocchia.
— Tu sei matto, — dichiarò Dagmar, ammirata, mentre nella stanza soffocante tornava a calare il silenzio.
— Tu che ne pensi, Ben? — disse Roger in tono implorante.
Ben fece un profondo respiro, sbattendo gli occhi mentre l’aria asfittica continuava a essere corsa da vibrazioni negative.
— Penso che una cosa è certa, — disse. — Ci siamo impegnati a cantare il Partitum Mutante al Benelux Contemporary Music Festival. Se lo facciamo, qualcuno metterà in dubbio il nostro buon senso. Se ci tiriamo indietro, tanti metteranno in dubbio la nostra serietà professionale.
Dagmar si scostò una pesante ciocca di capelli dal viso in un parossismo di fastidio.
— Siete tutti così inglesi, — si lamentò. — Vi uccidereste pur di non deludere l’impresa di pompe funebri. Perché non possiamo dire al Benelux Music Festival di ficcarsi i loro vari Fugazza e Waafels su per il culo?
— Aahh… Forse dovremmo considerare la cosa dalla prospettiva opposta, per così dire, — dichiarò Roger, con torvo ottimismo. — Sembriamo dare tutti per scontato che le ripercussioni negative di questo evento metteranno in cattiva luce la nostra reputazione, ma chi dice che non si riveli una manna dal cielo? Se il Partitum Mutante solleverà un polverone aizzando la stampa, il Coro sarà sulla bocca di tutti. In questo senso, indipendentemente da quello che provate davvero nell’intimo, sarebbe un bel salto qualitativo in termini di notorietà.
— E bravo il mignottone, — disse Julian con un broncio sarcastico.
— Come dici scusa?
— Intendevo in senso buono.
Chiaramente, da lì in poi la discussione non poteva che degenerare, e peccato che mancassero ancora molte ore alla fine della giornata. A più riprese, inesorabili come una funzione corporea, gli spasmi incontrollabili della disputa tornavano a riaccendersi. Catherine, benché immersa nella battaglia fino alle ginocchia, la guardava come da grande distanza. Sapeva che Roger non le avrebbe chiesto un parere, non dopo quelle sue risatine; aveva troppa paura che gli facesse fare una figuraccia mettendosi a parlare di biancheria intima. O forse temeva che si limitasse a fissarlo in preda a un ottenebramento intorpidito, come se lui cercasse di tirarla fuori da un pozzo senza fondo. Non si rendeva conto che lei ormai era altrove.
La verità era che tutto quel trambusto intorno al Partitum Mutante e al futuro del Coro non le faceva né caldo né freddo, e godeva del fatto che lo stesso valesse per Ben. Ogni volta che riusciva a farlo senza suscitare imbarazzo in nessuno dei due, si girava a lanciargli un’occhiata e sorrideva. Ben ricambiava i sorrisi, pallido per la stanchezza, mentre tra lui e Catherine si frapponeva tutto un rimbalzare di voci caustiche.
Lei pensò: Oserei fare qualcosa che potrebbe mandare a rotoli due matrimoni?
Alla fine, fu ancora una volta Axel a trarli in salvo. Strano come quella creaturina priva di orecchio musicale, quel marsupiale non invitato da nessuno che secondo le aspettative si sarebbe continuamente intromesso in una faccenda seria come il canto, li avesse lasciati entrare in sintonia con il Partitum Mutante senza mai interromperli per due intere settimane, facendosi sentire solo quando poteva esercitare il suo ruolo preferito di paciere.
Quel giorno, aveva permesso al Coro di litigare per tutta la mattinata e tutto il pomeriggio, accontentandosi dapprima di non imporre restrizioni più ambiziose se non quella di ricordare, ogni qualche ora, che dovevano fare una breve pausa per nutrirsi e dissetarsi. Però, quando calò la sera e loro seguitavano ad accanirsi, Axel decise che era il caso di adottare misure drastiche. Si spolmonò con l’intento di attirare la madre verso il suo corpicino febbricitante, che lui aveva marinato in una quantità di vomito e escrementi tale da guadagnarsi un bagno. Dagmar, interrotta proprio sul punto di annunciare la sua defezione dall’alleanza anglo-tedesca, ricacciò in gola le parole, salì pestando i piedi al piano di sopra e… non fece ritorno.
Il suo allontanamento ruppe quel vincolo di ostilità quasi spiritico e il Coro Courage, esausto, si disperse. Non avevano deciso niente, e la pioggia era ancora di là da venire. Julian se la svignò per farsi consolare dai borbottii della televisione olandese; Roger disse che sarebbe andato a letto, anche se l’espressione di ferito stoicismo che aveva sul viso faceva pensare che fosse diretto al Monte degli Ulivi per pregare.
Catherine e Ben si sedettero nella sala delle prove, da soli. Dalle finestre, gli alberi del bosco apparivano di un nero lanuginoso contro l’indaco del cielo notturno.
Dopo un po’, Catherine disse:
— A che cosa pensi, Ben?
E lui rispose:
— Resta poco tempo. Avremmo fatto meglio a esercitarci un po’.
Catherine annidò la guancia all’interno delle braccia conserte poggiate sullo schienale del divano. Da quell’angolazione, vedeva Ben con un solo occhio; era sufficiente.
— Cantami una canzone, Ben, — sussurrò.
Lui si alzò con un certo sforzo dalla poltrona e andò verso la vetrinetta. Spalancò gli sportelli e ne estrasse uno strumento musicale antico — una tiorba, forse. Una specie di liuto, comunque, reso stridulo dagli anni, scuro come melassa.