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Ben tornò alla poltrona, si mise seduto, e trovò il punto meno assurdo del suo corpo tondeggiante dove poggiare il tondeggiante strumento. Poi, dolcemente, cominciò a strimpellare le corde. Dalle profondità del suo petto, sonori come un sassofono, giunsero i versi melanconici di Tobias Hume, risalenti al 1645.

Alas, poore men Why strive you to live long? To have more time and space To suffer wrong?
Ahimè, perché Lotti contro la morte? Più tempo e spazio vuoi Per subir torti?

Ripensando a una vita dedicata alla guerra e alla musica, il buon Tobias avrebbe potuto benissimo interrompersi a quel punto, e invece seguivano molti altri versi; la musica imponeva di andare avanti, anche se c’era poco da aggiungere a quello stato d’animo. Ben Lamb cantò l’intera canzone, quasi nove minuti in totale, strimpellando nel frattempo il suo triste accompagnamento minimalista. Poi, quand’ebbe finito, si alzò e ripose con cura il liuto nella custodia. Catherine sapeva che subito dopo sarebbe andato a letto.

— Grazie, Ben, — disse, le labbra che respiravano contro l’avambraccio. — Buonanotte.

— Buonanotte, — disse lui, trascinandosi dietro il corpo.

♫♫

Un’ora dopo, Roger e Catherine fecero l’amore. Sembrava l’unico modo per rompere la tensione. Lui allungò una mano cercandola, la sua strana e irraggiungibile moglie, e lei cedette e si lasciò prendere.

— Non ci capisco più niente, niente, — gemette Roger, nella sua solitudine, mentre lei gli accarezzava la schiena umida.

— Non ci capisce niente nessuno, caro, — sussurrò Catherine distrattamente, lisciandogli i capelli con le mani. — Adesso dormi.

Non appena scivolò nel sonno, lei si scoprì, immaginando di fiammeggiare come brace ardente. Nella casa regnava il silenzio più assoluto; il rapporto di Julian con la televisione doveva essersi esaurito. Fuori, nel bosco, l’odore della pioggia imminente si gingillava sulla cima degli alberi, impertinente.

Sul punto di addormentarsi, Catherine pensò che stesse già sognando; c’erano dei rumori inquietanti che sembravano provenire dall’interno del suo corpo, i rumori di una creatura in difficoltà, che lottava per respirare, facendole vibrare i tessuti. Poi, a un tratto venne risvegliata da un grido realissimo che veniva dall’esterno. Il grido di un bambino, spaventato e incapace di parlare. Era quasi sicura che fosse Axel, ma l’istinto le diceva che era provocato da qualcosa che Dagmar non riusciva a gestire da sola.

Roger dormiva come un ciocco; lei lo lasciò tranquillo e si buttò addosso la vestaglia uscendo in fretta e furia dalla stanza.

— Hilfe! — urlava Dagmar a perdifiato.

Catherine corse nella stanza della ragazza tedesca, ma Axel era lì da solo, a dimenarsi e strepitare su un letto dalle coperte scagliate da una parte.

— Aiuto!

Catherine si precipitò nella stanza accanto, la stanza di Ben. Ben era sdraiato in terra vicino al lettino, il pigiama strappato che lasciava scoperto l’enorme busto esangue. Dagmar era china sopra di lui, sembrava che lo baciasse sulla bocca. Poi, ritraendosi, posò le mani sul petto tumido, schiacciando un palmo scuro sopra l’altro; con forza selvaggia riversò il peso delle spalle lungo le braccia muscolose, premendo tanto da formare un avvallamento nella carne di Ben.

— La respirazione. Fagliela tu, — ansimò concitata, spingendo ripetutamente sul punto dove era sicura si trovasse lo sterno ben nascosto. Il colossale petto di Ben si ergeva a una tale altezza dal pavimento che a ogni spinta le ginocchia di Dagmar si sollevavano in aria.

Catherine attraversò la stanza d’un balzo e si inginocchiò vicino alla testa di Ben.

— Roger! Julian! — sbraitò, poi premette le labbra direttamente contro quelle di Ben. Nelle pause fra le pressioni ritmiche di Dagmar, soffiava con quanto fiato aveva in corpo. Riempiva i polmoni fino a sentire che la trafiggevano, e poi soffiava, soffiava, e soffiava ancora.

Ti prego, ti prego, respira, pensava, ma Ben non respirò.

Julian entrò nella stanza come una furia, e per un attimo rimase sopraffatto alla vista delle due donne, Dagmar completamente nuda e Catherine con la vestaglia slacciata, inginocchiate in terra con Ben.

— Eh… — annaspò, gli occhi fuori dalle orbite, prima di intuire quale fosse la realtà. Uscì di volata dalla stanza, urlando a squarciagola, cercando un telefono nel buio.

♫♫

La luce nello Château de Luth era fioca e perlacea il giorno prefissato per il rientro a casa del Coro Courage. Il tempo era finalmente cambiato. I bagagli ingombravano il salone simili a orribili sculture moderne accostate a viva forza ad arcaici arcolai, flauti dolci, libri rilegati in pelle e liuti.

Jan van Hoeidonck sarebbe arrivato da un momento all’altro a bordo del suo minibus giallo banana, dopodiché, di sicuro, una volta sgombrata la casa Gina sarebbe andata a pulire. Un paio di mobili dell’ingresso erano stati malamente danneggiati dai portantini dell’ambulanza facendo passare il corpo di Ben attraverso lo stretto pertugio, ma i proprietari del castello non potevano che fare buon viso. Inutile aspettarsi che i pezzi d’antiquariato durassero in eterno; prima o poi, il deterioramento dei secoli avrebbe avuto la meglio.

In piedi vicino alla finestra, lo sguardo cieco fisso sui milioni di minuscoli sassolini di grandine che turbinavano sbatacchiando contro i vetri, Roger si risolse a sollevare l’argomento che bene o male andava affrontato.

— Dobbiamo decidere che cosa fare, — disse in tono pacato.

Dagmar si girò dall’altra parte, guardando in terra anziché al bambino che teneva stretto fra le braccia. Lei un’idea di che cosa avrebbe fatto ce l’aveva, e chiara, ma non era quello il momento di esporla a Roger Courage.

— Per il festival c’è ancora tempo, — disse, dondolandosi sulla valigia di plastica spropositatamente grossa di Catherine.

— Sì, ma non aspetta certo noi, — disse Roger.

— Dàcci un taglio, Roger, — gli consigliò Julian sommessamente, chino sul pianoforte, le lunghe dita che sfioravano tutti i tasti senza premerli.

Roger fece una smorfia vergognandosi di quello che stava per dire, di quello che non poteva esimersi dal dire, di quello che era costretto dal suo Dio personale a dire.

— Ce la caveremmo egregiamente, — disse agli altri. — La parte del basso nel Partitum Mutante è quella di gran lunga più lineare. Conosco un tizio di nome Arthur Falkirk, un vecchio amico di Ben. Cantavano insieme a Cambridge…

— No, Roger.

Era Catherine a parlare. Aveva la faccia rossa e gonfia, resa irriconoscibile dalle lacrime. Prima di riuscire finalmente a calmarsi quella mattina, aveva pianto con più trasporto, con meno ritegno di quanto non facesse da quando aveva sette anni. E, quando le sue urla si erano levate più fragorose, il torrente di pioggia aveva attutito l’acustica dello Château de Luth consentendo a quel lamento di trovare una collocazione accanto allo scricchiolio delle antiche fondamenta, al frastuono dell’acqua che scorreva da tubi di scolo e grondaie, al rumorio dei telefoni. Ora aveva la voce roca, talmente bassa che nessuno l’avrebbe mai presa per un soprano.

Roger tossì a disagio.

— Ben era molto coscienzioso, — disse. — Avrebbe voluto…

— No, Roger, — ripeté Catherine.

Il telefono squillò, e lei sollevò la cornetta prima che il marito riuscisse a muovere un muscolo.