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— Sì, — gracchiò nel microfono. — Sì, è il Coro Courage. Parla Catherine Courage. Sì, capisco, non si preoccupi. No, certo che non interpreteremo il Partitum Mutante. Forse il signor Fugazza troverà un altro ensemble. Una registrazione sarebbe l’alternativa più pratica a questo punto, ma sono sicura che il signor Fugazza si farà venire in mente qualcosa… Una dedica? È un pensiero molto gentile, ma non credo che Ben avrebbe apprezzato. Lasci fare a me, mi dia il tempo per pensare. Mi chiami al numero di Londra. Ma aspetti qualche giorno, se non le dispiace. Sì. Di niente. Arrivederci.

Roger era alla finestra, girato di spalle. Aveva le mani strette dietro la schiena, una infilata fiaccamente nell’altra. Stagliato contro la cascata scintillante di grandine, si riduceva quasi a un contorno. All’esterno, si sentì sbattere lo sportello di una macchina; gli altri non avevano nemmeno sentito il minibus di Jan van Hoeidonck arrivare, ma adesso era lì.

Catherine si sedette accanto a Dagmar sulla valigia; era così inutilmente grande che il bordo offriva spazio in abbondanza per tutte e due.

— Hai deciso di fare il viaggio con noi questa volta, grazie, — sussurrò all’orecchio della ragazza tedesca.

— Figurati, — dichiarò Dagmar in tono spento. Le lacrime rotolavano giù dalle guance frangendosi sul petto del bambino mentre permetteva a Catherine di stringerle una delle giovani mani d’acciaio che non avevano retto alla sfida di ricacciare la vita nella carne di Ben Lamb.

Il rumore di una spallata che apriva la porta gonfiata dalla pioggia infranse quel momento. Una poderosa raffica di aria umida, fragrante, terrosa spazzò la casa mentre Jan van Hoeidonck faceva il suo ingresso. Senza una parola, andò nel salone, agguantò due valigie — quella di Roger e quella di Ben — e si diede a trascinarle fuori dalla porta. Dagmar e Catherine scivolarono via dalla valigia di Catherine lasciando che Roger la trascinasse sulle rotelle, anche se tanto valeva lasciarla lì. Era piena di vestiti che non aveva messo, di cibo che non aveva mangiato. Avrebbe viaggiato più leggera in futuro, ammesso che ci fosse un futuro.

Cristo santo, non ricominciare, pensò. Limitiamoci a tirare avanti. E corse fuori sotto l’acquerugiola.

Il minibus giallo era più spazioso di come lo ricordasse, anche se, ora che si erano aggiunti Dagmar e Axel, c’erano più passeggeri dell’ultima volta — quanto a numero, se non a mole. Roger era seduto di nuovo vicino a Jan van Hoeidonck. Il direttore si allontanò dallo Château de Luth, le labbra serrate, concentrato su quanto vedeva attraverso i tergicristalli in movimento; le probabilità che lui e Roger riprendessero il filo del discorso sul futuro dell’Amsterdam Concertgebouw erano scarse. Julian era seduto in fondo al pulmino a scrutare il cottage che rimpiccioliva in prospettiva, tornando a farsi cartolina illustrata, immerso nella nebbia al di là dell’acquazzone.

Erano in viaggio da meno di cinque minuti quando all’improvviso la pioggia defluì dal cielo, e il bosco si materializzò come emergendo da una caligine di scariche elettriche. Poi uscì il sole, abbagliante.

Irradiandosi attraverso il vetro azzurrato del finestrino, il calore inondò il viso di Catherine, dando sollievo alle guance, pizzicando i bordi infiammati delle palpebre. Scomparsa la pioggia, l’acustica del mondo tornava a cambiare: il lieve ronzio del motore emerse dal basso, e gli uccelli presero a cinguettare tutt’intorno, mentre all’interno del pulmino, il silenzio dell’assenza di Ben si andava accumulando come alito cattivo. Era orribile, ferale.

Istintivamente, per colmare il vuoto, Catherine si mise a cantare; la canzoncina più semplice e consolatoria che conoscesse, un antico canone che cantava prima ancora di avere l’età per capire il significato delle parole.

Sumer is icumen in Loude sing cuckoo, Groweth seed and bloweth mead, And spring’th the woode now. Sing cuckoo…
È giunta l’estate Canta forte, cuculo, Cresce il seme e fiorisce il prato, E il bosco ora è in rigoglio. Canta cuculo…

La voce da soprano usciva dalla gola infiammata tremula e sommessa, quasi stonata. Catherine guardava fisso fuori dal finestrino, senza curarsi di quello che gli altri pensassero di lei; potevano etichettarla come un caso clinico, se ne avevano voglia. Il terribile silenzio si attenuava, era quella la cosa importante.

Attaccando la seconda strofa, rimase sconcertata nell’accorgersi che Julian si era unito a lei, delicato contrappunto tenorile a offrire assistenza alla sua conduzione vacillante.

Ewe bleateth after lamb, Low’th after calfe cow, Bullock sterteth, Bucke verteth, Merry sing cuckoo.
La pecorella bela dietro all’agnello, Mugghia il manzo dietro alla mucca, Il toro balza, Il cervo scalpita, Canta allegro, cuculo.

A quel punto si era unito anche Roger, e Dagman, che non conosceva le parole, improvvisò uno strano ma appropriato discanto sans paroles.

Cuckoo cuckoo Well singst thou cuckoo, Ne swicke thou never now. Sing cuckoo now, Sing cuckoo, Sing cuckoo, Sing cuckoo now…
Cuculo cuculo! Canti bene, cuculo, Non smettere mai. Ora canta cuculo, Canta cuculo, Canta cuculo, Ora canta cuculo…

E andarono avanti a cantare, senza guardarsi, diretti verso casa.

FINE