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«Vendicare mio figlio», disse con disdegno. «Lui era figlio di una dea! Tu non sei altro che una mortale. Oggi sei qui, domani non ci sei più. Non servite a niente, nessuno di voi, tranne ammirare me e lodarmi e offrirmi doni e morire quando a me fa piacere uccidervi. A proposito di morire, ho saputo che facevi domande su Chemosh.»

«È vero.»

«E che interesse hai per lui?» Zeboim guardava adesso da vicino Mina, e negli occhi le tremolava un fuoco azzurro.

«È il dio dei morti viventi», spiegò Mina. «Mi è venuto in mente che potrebbe aiutarmi a sconfiggere Krell...»

Rapida come la sferza del vento, Zeboim assestò a Mina un colpo in faccia con la palma della mano.

«Il suo nome non viene mai pronunciato in mia presenza», sbottò Zeboim e, appoggiandosi alla barra del timone, osservò Mina con un sorriso crudele.

«Mi dispiace, Padrona. Volevo dire il Traditore.» Mina si strofinò via il sangue dalla bocca.

Zeboim rimase in subbuglio per un attimo, poi si calmò. «Molto bene, allora, vai avanti. Ti trovo meno noiosa del previsto.»

«Il Traditore è un cavaliere della morte. Poiché Chemosh è il dio dei morti viventi, pensavo che forse le mie preghiere a lui potrebbero...»

«... potrebbero che cosa? Aiutarti?» Zeboim rise con gioia maligna. «Chemosh è fin troppo indaffarato a correre qua e là per i cieli con il suo retino per farfalle cercando di acchiappare tutte le anime che mia madre gli ha rubato. Non può aiutarti. Io sono l’unica che possa aiutarti. Le tue preghiere arrivano a me.»

«Allora io prego voi, padrona...»

«Penso che dovresti chiamarmi maestà», la corresse Zeboim, giocherellando languidamente con un ricciolo dei lunghi capelli aggrovigliati e osservando il fulmine che danzava sull’albero. «Poiché mia madre non è più con noi, io adesso sono la Regina. Regina del Mare e della Tempesta.»

«Come desiderate, maestà», disse Mina e con riverenza abbassò il capo, un gesto che compiacque Zeboim e consentì a Mina di nascondere gli occhi, di custodire i propri segreti.

«Che cosa vuoi da me, Mina? Se vuoi chiedermi di aiutarti ad annientare il Traditore, non credo che lo farò. Io traggo molto piacere dal vedere quel bastardo crucciarsi e adirarsi sul suo scoglio.»

«Tutto ciò che chiedo», disse umilmente Mina, «è che mi conduciate sana e salva al Bastione della Tempesta. Sarà mio onore e mio privilegio annientare il Traditore».

«A me piace proprio un bel combattimento», spiegò Zeboim con un sospiro. Si arrotolò i capelli attorno al dito e guardò la tempesta che infuriava tutto attorno a lei, senza mai toccarla.

«Molto bene», disse languidamente. «Se tu lo uccidi, io posso sempre riportarlo in vita. E se lui uccide te, cosa che ritengo piuttosto probabile...» Zeboim diede un’occhiata fredda, grigioazzurra, a Mina; «allora io mi sarò vendicata sul tesorino di mamma, il che è la cosa migliore a parte vendicarmi sulla mamma stessa».

«Grazie, maestà», disse Mina.

Non vi fu risposta, solo il rumore del vento che cantava nel sartiame, un suono canzonatorio.

Mina sollevò cautamente la testa e scoprì di essere sola. La dea se n’era andata come non fosse mai stata lì, e per un attimo Mina si domandò se avesse sognato. Si mise la mano sulla mascella dolorante, sul labbro che le pizzicava, e ritrasse le dita macchiate di sangue.

Come per darle una prova ulteriore, il vento cessò bruscamente di ululare attorno a lei. Le nubi temporalesche si diradarono, lacerate da una mano immortale. Le onde si acquietarono, e presto la barca di Mina dondolò su onde lunghe abbastanza dolci da cullare un neonato per addormentarlo. La brezza di mare si ravvivò, soffiando da sud, una brezza che l’avrebbe condotta rapidamente a destinazione.

«Onore e gloria a voi, Zeboim, maestà dei mari!» gridò Mina.

Il sole spuntò fra le nubi, facendo balenare d’oro l’acqua. Mina stava per issare la vela, ma non ce ne fu bisogno. La barca balzò in avanti, procedette sfiorando le onde. Mina afferrò la barra del timone e sorbì l’aria impetuosa, impregnata di salsedine, un passo più vicino a ciò che desiderava il suo cuore.

6

L’isola di Bastione della Tempesta un tempo brulicava di vita. Fortezza e guarnigione dei Cavalieri delle Tenebre di Takhisis, il Bastione della Tempesta aveva ospitato cavalieri, uomini d’arme, servitori, cuochi, scudieri, paggi, istruttori, schiavi. Sul Bastione della Tempesta vi erano stati chierici devoti a Takhisis. Maghi dediti al suo servizio avevano operato lì. Draghi azzurri si erano involati dal promontorio, si erano librati sul mare trasportando sul dorso i loro conduttori. Tutti quanti avevano un unico obiettivo costante: conquistare Ansalon e da lì il mondo.

Avevano quasi vinto.

Ma poi era arrivato Chaos. Poi era arrivato il tradimento.

Il Bastione della Tempesta adesso era la prigione della morte, con un unico prigioniero solitario. Aveva tutto per sé: la possente fortezza, le torri e le piazze d’armi, le scuderie e le cripte del tesoro, i depositi e i magazzini. Lo detestava tutto. Ogni centimetro inzuppato dal mare.

In una grande stanza in cima alla Torre del Teschio, la torre più alta della fortezza chiamata Bastione della Tempesta, Lord Ausric Krell mise le mani (coperte da manopole di cuoio per nasconderne lo stato scarnificato) sul tavolo e vi si appoggiò per alzarsi in piedi. In vita era stato un uomo di bassa statura, pesante e bestiale, e nella morte era un cadavere ambulante di bassa statura, pesante e bestiale. Il cadavere era equipaggiato con l’armatura nera in cui era morto, saldata su di lui dalla maledizione che lo teneva incatenato a questa esistenza.

Davanti a lui, montata su un supporto, vi era una sfera realizzata in opale nero. Krell vi scrutò dentro, con gli occhi diabolici che ardevano di rosso nelle orbite dell’elmo. La sfera racchiudeva nelle sue profondità infuocate l’immagine di una barca a vela, piccola sul vasto oceano. Nella barca, ancora più piccola, vi era un cavaliere che indossava l’armatura disonorata da Krell.

Allontanandosi dalla sfera, Krell si diresse a grandi passi verso la feritoia nella parete di pietra che dava sui mari impetuosi. L’armatura mandava rumori secchi e metallici mentre lui camminava. Krell guardò fuori dall’apertura e per la soddisfazione si strofinò le mani guantate, mormorando: «Era tanto che non veniva qualcuno a giocare».

Doveva prepararsi.

Krell discese a passi pesanti la scala a chiocciola che conduceva alla stanza sulla torre in cui lui era abituato a trascorrere gran parte del tempo a fissare, incollerito e frustrato, la sfera di opale nero chiamata Fiamme delle Tempeste. La sfera magica offriva a Krell l’unica visione del mondo al di là della fortezza, un mondo che lui era convinto di poter dominare se soltanto fosse riuscito a fuggire da quello scoglio maledetto. Krell era stato testimone di gran parte della storia dell’Era dei Mortali grazie a quella sfera magica, un dono di Zeboim all’amato figlio, Lord Ariakan.

Krell aveva scoperto quel potente oggetto magico poco dopo la sua morte e il suo incarceramento, e aveva provato un gusto maligno, pensando che Zeboim l’avesse lasciato lì per errore. Ben presto, però, giunse a capire che faceva parte della sua crudele tortura. Zeboim gli aveva offerto il mezzo per essere testimone del mondo, quindi gli aveva portato via la capacità di farne parte. Lui poteva guardare, ma non toccare.

Trovava la cosa tanto tormentosa che a volte prendeva fra le mani la sfera di opale, pronto a scagliarla fuori dalla finestra sulle rocce sottostanti. Sempre però vinceva quell’impulso sconsiderato e ricollocava la sfera sul supporto a forma di serpente. Un giorno avrebbe trovato un modo per fuggire e allora avrebbe avuto bisogno di essere informato.

Krell dentro la sfera di opale aveva osservato svolgersi la Guerra delle Anime. Aveva guardato con gioia l’ascesa di Mina, pensando che se qualcuno poteva salvarlo sarebbe stata lei con il suo Unico Dio. Krell non aveva idea di chi fosse l’Unico Dio, ma purché potesse combattere Zeboim (che Krell era ancora mezzo convinto fosse appostata da qualche parte) a lui non importava.