Ripensando alla sua conversazione con la dea, Mina immaginò quest’ultima eventualità. Rifletté sul da farsi e fu allora che le venne in mente una cosa. Aprì gli occhi, tornò a guardare all’insù verso la vetta su cui aveva visto Krell.
«Avrebbe potuto uccidermi se l’avesse voluto», si rese conto. «Creare un incantesimo contro di me o se non altro lanciarmi in testa una roccia. Non l’ha fatto. Attende di affrontarmi. Vuole giocare con me. Stuzzicarmi prima di uccidermi. Krell non è diverso da altri morti viventi. Non è diverso nemmeno dal dio della morte stesso.»
Grazie ai mesi trascorsi a comandare una legione di anime, Mina sapeva che i morti hanno una debolezza: la brama per i vivi.
Qualcosa in Krell si rammentava che cosa volesse dire essere in vita e bramava un’interazione con i vivi. Krell doveva percepire per interposta persona la vita che lui aveva perduto. Odiava i vivi, per cui alla fine l’avrebbe uccisa. Ma Mina poteva stare certa che per lo meno non l’avrebbe uccisa subito, prima che lei avesse avuto occasione di parlargli, di dirgli del suo progetto. Questa deduzione le diede speranza e le sollevò lo spirito, anche se non fece nulla per alleviarle gli spasmi alle gambe né il freddo che le intorpidiva le ossa. L’attendeva un tragitto lungo e pericoloso, e lei doveva essere pronta, fisicamente e mentalmente, a incontrare un nemico mortale al termine del viaggio.
Il nome di Chemosh le giunse caldo alle labbra intorpidite. Percepì la presenza del dio, percepì che lui la stava osservando.
Non pregò per ottenere il suo aiuto. Lui le aveva detto che non ne aveva da offrire, e lei non si sarebbe umiliata a implorarlo. Sussurrò il suo nome, se lo tenne saldo nel cuore perché le desse forza, e mise il piede con prudenza sullo scalino successivo, saggiandolo.
Lo scalino rimase saldo, come il successivo. Avanzando su per la scalinata, Mina teneva gli occhi su dove metteva i piedi, guardando dove procedeva, usando le mani per tastare la via lungo la parete del dirupo. Spostando in avanti le mani, rimase sbalordita nel non sentire nulla, tanto sbalordita che quasi mollò la presa. Una sottile crepa fendeva la parete di roccia.
In equilibrio precario sullo scalino, Mina pose le mani sui due lati della fenditura e scrutò all’interno. La grigia luce del giorno non penetrava lontano nell’oscurità, ma ciò che Mina vide era affascinante: un pavimento liscio, evidentemente costruito dall’uomo, circa un metro più sotto di dove si trovava lei. Non vedeva molto al di là del pavimento, ma ebbe l’impressione di un ampio vano. Annusò l’aria. L’odore le era noto, le ricordava qualcosa.
Un granaio. Lei aveva appena liberato la città di Sanction. I suoi uomini, impegnati a impadronirsi della città, si erano imbattuti in un granaio. Lei era andata a ispezionarlo, e l’odore era questo o molto simile. Nel deposito di Sanction il grano era stato messo di recente e l’odore era intensissimo. Qui l’odore era debole e mescolato a muffa, ma Mina era certa di avere trovato il granaio della fortezza del Bastione della Tempesta.
Quella collocazione aveva senso, poiché era vicina all’approdo dove il grano veniva scaricato dalla nave. Da qualche parte in cima al dirupo doveva esserci un’apertura, uno scivolo da cui riversare il grano. Il granaio sarebbe stato ormai vuoto. Erano quarant’anni che il Bastione era abbandonato. Centinaia di generazioni di ratti avrebbero banchettato con le eventuali scorte lasciate dai cavalieri.
Non che tutto ciò importasse. Ciò che importava era che lei aveva trovato un modo per intrufolarsi nella fortezza, un modo per cogliere di sorpresa Krell.
«Chemosh», sussurrò Mina capendo all’improvviso.
Il nome di lui era stato sulle sue labbra quando aveva trovato la fenditura nella parete. Non aveva chiesto il suo aiuto, ma lui gliel’aveva concesso, e a Mina batté forte il cuore quando si rese conto che lui voleva la riuscita della sua impresa. Mina scrutò la fenditura nella parete. Era stretta, ma lei era snella. Poteva forse infilarsi lì dentro, ma non indossando la corazza. Se la sarebbe dovuta togliere e così sarebbe rimasta priva di armatura quando fosse giunta ad affrontare il cavaliere della morte.
Mina esitò. Guardò su verso la scalinata infinita, in cima alla quale era in attesa Krell. Guardò dentro il granaio: un pavimento liscio e asciutto, una via segreta per entrare nella parte principale del Bastione. Le bastava togliersi la corazza, contrassegnata dal simbolo di Takhisis.
Mina capì. «È questo che mi chiedete», bisbigliò al dio che l’ascoltava. «Volete che io mi tolga l’ultimo vestigio della fede nella dea. Che riponga in voi tutta la mia fede e la mia fiducia.»
In equilibrio precario sulla scala, con le dita fredde che le tremavano, Mina tirò e strattonò le cinghie di cuoio umide che allacciavano la corazza.
Krell si maledisse per essere stato tanto idiota da farsi vedere così. Maledisse anche Mina, domandandosi quale pazza idea fosse passata per la mente della donna da farle guardare in su anziché in giù, da farle guardare direttamente verso di lui.
«Zeboim», mormorò Krell, e maledisse la dea, una maledizione che pronunciava quasi ogni ora di ogni giorno tormentato.
Non poteva più contare di cogliere di sorpresa Mina. Sarebbe stata pronta per lui, e sebbene lui non pensasse veramente che Mina potesse causargli alcun danno, si rammentava del fatto che questa era la donna che aveva superato Lord Soth, uno dei morti viventi più formidabili di tutta la storia di Krynn.
È meglio sopravvalutare il nemico che sottovalutarlo: era stata una massima di Ariakan.
«L’aspetterò in cima alla scala nera», decise Krell. «Sarà esausta, troppo stanca per opporre molta resistenza.»
Non voleva combattere con lei. Voleva catturarla viva. Lui catturava sempre vive le sue prede, se possibile. Un ladro sventurato, attirato al Bastione della Tempesta dalle dicerie sul tesoro abbandonato dai Cavalieri delle Tenebre, era rimasto tanto terrorizzato alla vista di Krell che era caduto morto ai piedi del cavaliere della morte, una grave delusione per Krell.
Lui aveva però fiducia in Mina. Era giovane, forte e coraggiosa. Gli avrebbe garantito una bella contesa. Sarebbe sopravvissuta per giorni.
Krell stava per allontanarsi dal monte Ambizione per tornare alla fortezza quando udì un rumore che gli avrebbe fatto sussultare il cuore se ne avesse avuto uno.
Da sotto giunsero un urlo terrorizzato di donna e il fragore metallico di un’armatura che si schiantava su rocce aguzze.
Krell corse al margine del promontorio, scrutò oltre il ciglio. Imprecò di nuovo e assestò un pugno a un macigno, fendendolo da cima a fondo.
La scala nera era vuota. Alla base del dirupo, quasi invisibile nell’acqua schiumante e ribollente, Krell poteva vedere galleggiare nel mare una corazza nera, ornata con un teschio colpito dal fulmine.
7
Mentre il suo urlo riecheggiava sulla parete del dirupo, Mina osservò l’elmo e la corazza neri urtare le rocce sottostanti e rimbalzare nell’acqua. Con la vista offuscata dalla penombra grigia della tempesta, da quella distanza non vedeva che l’armatura era vuota quando era precipitata giù dalla scalinata, e adesso era ormai invisibile nelle onde sferzanti. Sperava che la vista di Krell non fosse migliore.
Mina inspirò e introdusse a forza il proprio corpo nella fenditura della parete rocciosa. Anche senza corazza ce la fece a malapena, e per un istante spaventoso rimase incastrata. Dimenandosi disperatamente si liberò e si lasciò cadere con leggerezza a terra. Si fermò per riprendere fiato, attese che gli occhi le si abituassero al buio e pensò come era bello posare i piedi su un piano orizzontale e saldo. Era proprio bello sottrarsi al vento freddo e allontanarsi dalla spuma salata.
Mina si asciugò le mani come meglio poté sull’estremità della camicia, strofinandosele per ristabilire la circolazione. Non aveva né armatura né armi. Aveva gettato in mare non soltanto la corazza e l’elmo, ma anche, dopo un attimo di esitazione, la stella del mattino: aveva gettato via la bambina ansiosa e innocente che era andata a cercare gli dèi e li aveva trovati.