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Mina aveva creduto in Takhisis, aveva obbedito ai suoi ordini, aveva sopportato le sue punizioni, eseguito i comandi della dea senza discutere. Aveva conservato la sua fede in Takhisis quando tutto aveva incominciato ad andare storto, aveva combattuto il dubbio che la rodeva come i ratti nel grano. Alla fine i suoi dubbi le avevano divorato tutte le provviste, cosicché quando la sua fede sarebbe dovuta essere al massimo della forza, quando lei sarebbe dovuta essere pronta a sacrificarsi per amore della dea, tutto ciò che rimaneva era paglia. Mina allora aveva conosciuto un dispiacere lacerante, dispiacere per la sua perdita, e provò in parte lo stesso dispiacere quando gettò in mare le ultime vestigia della sua fede nell’Unico Dio.

L’innocenza non esisteva più. La fede indiscussa non esisteva più. Così aveva osato domandare a Chemosh: «Che cosa mi darete in cambio?». Anche se gli aveva ormai dato prova di appartenere a lui, non voleva essere il suo fantoccio e danzare al suo comando, e neppure essere la sua schiava e strisciargli ai piedi. Da sola nel buio del Bastione della Tempesta, Mina ascoltò. Non restava in ascolto della voce del dio affinché le dicesse che cosa fare. Ascoltava la propria voce, il proprio consiglio.

L’Era dei Mortali. Forse questo era ciò che intendevano i saggi, ciò che intendeva Chemosh. Una collaborazione fra dio e uomo. Era una premessa interessante.

La fioca luce del giorno grigio filtrava attraverso la fenditura della parete e faceva capolino da altri varchi più piccoli. Quando gli occhi le si abituarono alle ombre, Mina poté vedere gran parte della sala. Era, come lei aveva immaginato, una stanza adibita a deposito, non soltanto di grano ma anche di altre provviste.

A terra vi erano alcune casse e scatole di legno, con i coperchi strappati via e il contenuto riversato fuori. Mina poteva raffigurarsi i cavalieri, nella loro fretta ansiosa di partire dal Bastione della Tempesta per iniziare la conquista di Ansalon, sfondare le casse per vedere che cosa contenessero, accertandosi di non lasciare lì nulla di valore. Mina diede un’occhiata alle scatole mentre le superava, diretta verso una porta con listelli di ferro situata all’estremità della stanza. Notò attrezzi arrugginiti e coperti di polvere, come quelli usati dai fabbri, e alcune pezze di tessuto di lana, ormai ammuffite e mangiate dalle tarme. Da anni si sentivano dicerie secondo cui i cavalieri avevano lasciato lì cumuli di tesori. Le dicerie avevano senso, poiché era improbabile che i cavalieri fossero volati in battaglia a dorso di drago trasportando forzieri di monete d’acciaio. Ma in tal caso il tesoro non era lì. Sotto i passi di Mina, i suoi stivali facevano scricchiolare escrementi essiccati di ratto e noccioli sbocconcellati, tutto quanto rimanesse della potenza dei Cavalieri delle Tenebre di Takhisis.

Mina raccolse una spranga di ferro. Se la porta del granaio fosse stata chiusa a chiave, lei avrebbe avuto bisogno di un attrezzo per forzare la serratura. Sperava di non dover fare ricorso a questo. Krell doveva considerarla morta, uccisa nella caduta dalla scalinata, e lei non voleva fare niente per destare sospetti in lui. Anche se non lo sapeva per certo, immaginava che il cavaliere della morte conservasse la sua potenza di udito e perfino al di sopra del lamento funebre del vento (il piagnucolio della dea addolorata e infuriata) potesse essere in grado di cogliere il rumore di qualcuno che con una spranga di ferro picchiasse contro una serratura di ferro.

Quando Mina raggiunse la porta, pose la mano sulla maniglia e spinse delicatamente. Con suo sollievo la porta si aprì. Non era sorprendente, a pensarci bene. Perché preoccuparsi di chiudere a chiave la porta di un magazzino vuoto?

La porta si apriva su un corridoio, con lo stesso pavimento lastricato in pietra e le pareti sgrossate. Il corridoio era molto più buio del magazzino. Niente fenditure sulle pareti. Lei non aveva fiaccole né alcun modo per accenderne una. Sarebbe dovuta procedere a tentoni.

Mina richiamò dalla memoria la mappa della fortezza che aveva lasciato stivata al sicuro nella barca. Prima di intraprendere questa avventura si era recata nella città di Palanthas per far visita alla famosa biblioteca della città. Lì aveva chiesto a uno degli Esteti una mappa del Bastione della Tempesta. Pensando che lei fosse una sconsiderata cercatrice di tesori, il giovane e serio Esteta aveva cercato in tutti i modi di dissuaderla dal rischiare la vita in un’avventura tanto temeraria. Mina aveva insistito, e in base alle regole della biblioteca, secondo cui tutta la conoscenza era disponibile a chiunque la ricercasse, lui le aveva portato la mappa richiesta, una mappa disegnata dallo stesso Lord Ariakan.

Il granaio non era stato segnato sulla mappa. Ariakan aveva inserito soltanto quelle zone che lui considerava importanti: sale riunioni, caserme, alloggi, ecc. Mina aveva soltanto un’idea molto vaga di dove si trovasse, più che altro basandosi su dove non si trovasse.

L’insenatura era situata sul lato meridionale dell’isola, il che significava che lei era entrata nel granaio da sud e attualmente era rivolta verso est. Poiché il granaio era costruito adiacente alla scalinata, Mina non riteneva probabile che il corridoio si estendesse verso sud, poiché quello era un vicolo cieco. Si diresse pertanto verso nord nell’uscire, chiudendosi alle spalle la porta del granaio.

Non era probabile che Krell scendesse lì sotto, ma se l’avesse fatto non avrebbe trovato la porta aperta, a indicare che qualcuno stava curiosando lì intorno. Ma chiudendo la porta Mina lasciò fuori tutta la fioca luce proveniente dal granaio, finendo nell’oscurità completa. Non vedeva niente davanti a sé né sui due lati. Strascicò i piedi sul pavimento nel tentativo di evitare di incespicare su qualche ostacolo invisibile. Sperò di non dovere procedere a lungo nel buio.

Non aveva fatto molti passi quando notò che il pavimento incominciava a farsi ripido.

«Una rampa», disse fra sé, immaginandosi schiavi che spingevano carriole colme di grano.

Proseguì lungo la rampa e finì dritta contro una porta che prese ad aprirsi quando il suo stivale la colpì. Col cuore in gola, Mina afferrò la porta e la tenne chiusa. Aveva intravisto brevemente ciò che vi era al di là della porta: un cortile, in piena vista. Per quanto ne sapesse lei, Krell poteva essere là fuori in quel cortile, a fare una passeggiata pomeridiana.

Se era pomeriggio. Mina aveva perso la cognizione del tempo, ed era una cosa in più di cui preoccuparsi. Non voleva essere sorpresa da sola con Krell sul Bastione della Tempesta al calar della notte. Aprendo la porta di uno spiraglio, sbirciò fuori.

La piazza d’armi, lastricata di ciottoli, era vuota. Era vasta e Mina la riconobbe dalla mappa. La piazza d’armi si trovava all’ombra di un’alta torre, e adesso Mina sapeva esattamente dove si trovava. A giudicare dalla forma e dall’ubicazione, doveva essere la Torre Centrale, una struttura massiccia che ospitava le principali sale riunioni, le sale da pranzo, gli alloggi dei servitori. Lord Ariakan aveva le sue stanze in quella Torre. Si riteneva vi fosse anche una camera che conduceva direttamente al piano di esistenza in cui dimorava un tempo Takhisis. Non lontano da questa vi era la Torre del Giglio, dove era di stanza il reparto di élite dei Cavalieri del Giglio, e all’estremità opposta della fortezza si ergeva la Torre del Teschio, sede dell’ala arcana dei Cavalieri delle Tenebre. Sparsi fra le tre torri vi erano numerosi fabbricati annessi.

La planimetria bidimensionale che Mina aveva esaminato nella biblioteca di Palanthas non trasmetteva l’immensità della fortezza. Mina non si era resa conto, alla partenza, quanto fosse grande la struttura né quanto terreno occupasse. E non aveva idea di quale edificio abitasse Krell. Scrutando la distesa spazzata dal vento della piazza d’armi, Mina incominciò a domandarsi se fosse stata buona la sua idea di entrare di soppiatto nella fortezza.