«Potrei trascorrere giorni a vagare in questo posto alla ricerca di Krell», si rese conto. «Niente cibo e niente acqua. Senza osare dormire per paura che lui mi uccida.»
Tutto sommato, sarebbe stato meglio per lei sfidare la sorte e affrontare Krell sulla scalinata.
Mina scrollò il capo, si scrollò via i dubbi. «Chemosh mi ha portata qui. Lui non mi abbandonerà.»
Con rinnovata fiducia, Mina diede una spinta alla porta e fece per uscire e attraversare la piazza d’armi.
E lì c’era Krell, che usciva da dietro un muro, proveniente dalla direzione dei dirupi su cui lei l’aveva visto per l’ultima volta.
Mina si immobilizzò, non osando muoversi né respirare.
Krell la oltrepassò, ad appena due metri di distanza. Se lei fosse uscita dal nascondiglio un istante prima, avrebbe commesso il madornale errore di imbattersi in lui. Il cavaliere della morte era ripugnante a vedersi. Il tormento ardente della sua vita maledetta fiammeggiava di rosso nelle ombre delle fessure per gli occhi del suo elmo a cranio d’ariete. Mina sapeva che se lui si fosse tolto l’elmo sarebbe stato ancora più ripugnante, poiché al di sotto non vi era nulla. Nulla tranne il buco ricavato nell’esistenza in cui vi era stata la sua vita, e quel buco era più nero dell’oscurità dentro una tomba sepolta in una cripta dimenticata.
La sua armatura snodata e sfaccettata, decorata col teschio e col giglio, era macchiata del sangue che Zeboim gli aveva prosciugato nell’arco di molti giorni di tortura. Il sangue luccicava di rosso, fresco come nel giorno in cui l’aveva versato fra urla di dolore. La pioggia sferzante non lavava mai via il sangue. Camminando Krell lasciava impronte insanguinate.
Portava una spada che gli sferragliava al fianco, ma la sua arma più potente era la paura. Avrebbe usato la paura per ridurre lo spirito di Mina a una poltiglia tremante, così come avrebbe usato i pugni per ridurle in poltiglia la carne e le ossa.
La paura che emanava da lui a ondate colpì Mina, che si sgomentò e si fece piccola per il timore. Quando aveva affrontato l’altro cavaliere della morte, Lord Soth, era armata della potenza dell’Unico Dio. Portava in mano l’arma dell’Unico Dio. Soth non aveva potere su di lei. Era stato sepolto sotto le macerie della sua fortezza.
Mina non indossava più un’armatura sacra. Chemosh le aveva chiesto di gettare via l’armatura come prova di fede. Doveva affrontare quel formidabile cavaliere della morte indossando una camicia di lana inzuppata di pioggia che le aderiva umida al corpo snello, sembrando sottolineare il fatto che lei era fatta di carne morbida e tremante e lui era fatto di acciaio e di morte.
La paura la paralizzava. Non riusciva a muoversi, ma rimaneva accovacciata sulla soglia, con lo stomaco che le si stringeva, i muscoli delle gambe che le si contorcevano in spasmi dolorosi. Se Krell avesse voltato la testa, l’avrebbe vista tremante sulla soglia, pusillanime come un nano di fosso. Sarebbe arrivato con furia su di lei e Mina si sarebbe fatta piccola e inerme davanti a lui.
Mina chiuse gli occhi, distolse lo sguardo. La tentazione di fuggire la sopraffaceva, e lei si sforzò di controbatterla.
«Ho percorso da sola la valle maledetta di Neraka», disse digrignando i denti. «Ho sopportato le prove della Regina delle Tenebre. Takhisis mi teneva in pugno, e la sua gloria mi inaridiva la carne, eppure adesso io tremo davanti a questo pezzo di escremento. Io sono forse audace soltanto quando gli dèi mi tengono per mano? È questo il modo per dimostrare a Chemosh di che cosa sono capace?»
Mina aprì gli occhi. Si costrinse a guardare Krell, lo fissò intensamente. Smise di tremare. Gli spasmi muscolari le si alleviarono. Inspirò profondamente due volte e si rilassò.
Krell non l’aveva né vista né udita. Passò oltre, imprecando ad alta voce per avere perduto la preda e agitando il pugno con rabbia impotente. Qualunque tormento avesse predisposto per lei, Krell era dolorosamente deluso per avere perduto questa occasione.
Mentre Krell avanzava a grandi passi per la piazza d’armi, il suo tormento lo colpiva e lo lacerava. Il vento della collera della dea lo sferzava. Krell aveva difficoltà a camminare contro quel vento furioso, pur essendo di costituzione forte e poderosa. Nubi nere ribollivano e si addensavano in alto. Fulmini si abbattevano ai suoi piedi, scagliando all’insù pezzi di roccia e in un’occasione facendo cadere Krell in ginocchio. Il rimbombo del tuono quasi continuo faceva tremare il suolo.
Rimettendosi in piedi barcollando, Krell agitò il pugno verso i cieli. Non stuzzicò però ulteriormente la dea, ma corse verso la Torre del Giglio con un trotterellare goffo, ostacolato dall’armatura.
Mina attese che lui fosse a metà della piazza d’armi, quindi lo seguì. Aveva sperato che la dea si acquietasse alla sua comparsa, che la tempesta si placasse per lei. Le fu presto tolta ogni illusione in proposito. Nel momento in cui mise piede sulla piazza d’armi, una folata di vento la colpì, spingendola giù a quattro zampe. La pioggia lancinante la picchiettava con forza pungente e accecante.
Zeboim, a quanto pareva, non faceva favoritismi.
Per lo meno Krell non fu incline a fermarsi nel mezzo del ciclone per guardarsi alle spalle e vedere se fosse seguito. Stava dirigendosi verso la torre quanto più velocemente potessero condurlo i suoi passi pesanti.
Sollevandosi in piedi, Mina combatté contro la tempesta e lo seguì.
Krell era di malumore. Il cavaliere della morte non era mai realmente di buonumore, ma certi giorni per Krell erano migliori di altri. Certi giorni era fortunato ad avere i vivi attorno a intrattenerlo. Certi giorni, se Zeboim era impegnata altrove, lui poteva percorrere la piazza d’armi e ricevere solo una lieve spruzzata. Proprio oggi, però, la Strega del Mare doveva essersi piazzata direttamente lì sopra.
Adirato e gocciolante, Krell entrò a grandi passi nella biblioteca in cui aveva predisposto tutto in previsione della sua visitatrice, il cui corpo spezzato e sanguinante stava ora offrendo cibo agli squali.
Krell lasciò cadere su una sedia il proprio corpo munito di armatura e fissò imbronciato il tabellone per il gioco e la sedia vuota dall’altra parte. Krell era stufo di giocare a khas contro se stesso.
Krell era un avido giocatore di khas, al pari dei molti Cavalieri di Takhisis. Steel Brightblade una volta aveva scherzato dicendo che la conoscenza del gioco era un requisito per entrare a far parte dell’ordine dei cavalieri, e in ciò non aveva tutti i torti. Ariakan, un ottimo giocatore, riteneva che quel gioco intricato insegnasse a riflettere non solo sui propri stratagemmi ma anche su quelli degli avversari, consentendo di prevedere con molto anticipo le mosse degli oppositori. I buoni giocatori di khas costituivano dei buoni comandanti, o per lo meno così riteneva Ariakan.
Krell e Ariakan avevano trascorso molte ore di contesa sul tabellone del khas. I ricordi di quelle ore gli erano ritornati al gran completo quando Krell aveva ordito l’assassinio del suo comandante. Ariakan aveva sempre battuto Krell a khas.
Il tabellone rotondo del khas con le sue caselle esagonali nere, rosse e bianche si trovava nel suo posto consueto su un supporto in ferro battuto davanti all’enorme caminetto. I pezzi di giaietto nero e giada verde intagliati a mano si guardavano torvi da un lato all’altro del campo di battaglia nero, rosso e bianco. Krell era nel bel mezzo di una partita contro se stesso (in queste contese di solito vinceva), ma aveva rapidamente azzerato la partita per rimettere i pezzi nella posizione di partenza.
Adesso avrebbe dovuto ricominciare. Accigliandosi, allungò la mano guantata, afferrò una pedina e la spostò su una casella adiacente. Lasciò andare la pedina; stava per alzarsi e spostarsi sulla sedia dall’altra parte del tabellone quando cambiò idea. Avrebbe utilizzato un’altra apertura. Allungò la mano per prendere la pedina e stava per modificarne la posizione quando da dietro le sue spalle parlò una voce: una voce vivente.
«Non puoi», disse Mina. «È contro le regole. Hai staccato la mano dal pezzo. Deve restare dove l’hai messo.»