In vita o in morte, Ausric Krell non era mai rimasto tanto sbalordito.
Si girò di scatto per vedere chi avesse parlato. Una femmina snella, vestita con abiti bagnati fradici, dai capelli rossi come la furia di Krell e dagli occhi di ambra dorata, era lì in piedi con una spranga di ferro tra le mani. Era sul punto di portare un colpo con la spranga verso la testa di Krell.
Sbalordito dalla vista di lei viva quando aveva presunto che fosse morta, sconvolto dalla sua temerarietà e dal fatto che non fosse prostrata dal terrore davanti a lui, e colto impreparato dalla rapidità e dalla subitaneità dell’attacco, Krell ebbe il tempo di emettere un ringhio furioso prima che la spranga di ferro gli si schiantasse sull’elmo.
Una fiamma rossa incandescente illuminò le tenebre permanenti in cui viveva Krell, quindi si smorzò.
Le tenebre di Krell si fecero ancora più buie.
Il colpo di Mina, portato con tutta la forza repressa della sua paura e della sua determinazione, staccò l’elmo dal corpo di Krell e lo mandò a rimbalzare sferragliando per la stanza fino a scontrarsi con alcuni dei cadaveri che lui aveva sospinto nell’angolo. L’armatura in cui era stata racchiusa l’energia del morto vivente rimase eretta, seduta sulla sedia, mezzo girata all’indietro, con una mano ancora stesa per prendere il pezzo del khas, l’altra mano sollevata con un movimento inefficace per cercare di fermare l’attacco di Mina.
Mina tenne la spranga in posizione per un altro colpo, osservando con circospezione sia l’elmo a terra sia l’armatura sulla sedia, pronta a colpire se l’elmo avesse vacillato o l’armatura insanguinata si fosse appena contratta.
L’elmo rimase fermo. L’armatura invece si mosse. La si sarebbe potuta esporre in qualche palazzo della nobiltà di Palanthas. Mina stava per emettere un sospiro tremante e abbassare la spranga quando la porta si spalancò alle sue spalle, schiantandosi contro la parete di pietra con un tonfo da far sussultare il cuore. Mina sollevò la spranga e si girò rapidamente per affrontare questo nuovo nemico.
La folata di vento annunciò l’arrivo della dea.
Zeboim sembrava vestita di tempesta, i suoi indumenti morbidi erano in movimento continuo, le volteggiavano attorno come i venti mutevoli quando entrò nella stanza. Mina abbassò la spranga e cadde in ginocchio.
«Dea del Mare e della Tempesta, ho fatto ciò che avevo promesso. Lord Ausric Krell, il cavaliere traditore che vilmente assassinò vostro figlio, è annientato.»
Con la testa china, Mina sbirciò da sotto le ciglia per vedere la reazione della dea. Zeboim superò rapidamente Mina senza degnarla di uno sguardo, tenendo gli occhi verde mare fissi sull’armatura insanguinata e sull’elmo metallico più lontano nell’angolo: tutto quel che rimaneva di Ausric Krell.
Zeboim toccò l’armatura con la punta delle dita, quindi le diede una spinta.
L’armatura crollò. Le manopole di maglia di ferro caddero a terra. La corazza si accasciò lateralmente sulla sedia. Gli schinieri caddero a destra e a sinistra. I due stivali rimasero in piedi, fermi, in posizione. Zeboim andò verso l’elmo. Spinse fuori un piede delicato, impartendo all’elmo una spintarella sdegnosa con le dita del piede. L’elmo a cranio d’ariete dondolò un po’, quindi si fermò. Le orbite vuote, nere come la morte, fissavano il nulla.
Mina rimase in ginocchio, con la testa china, le braccia incrociate sul petto con aria di umile supplica. Il vento che scortava la dea era freddo e pungente, e Mina tremava in maniera irrefrenabile. Controllava la dea con la coda dell’occhio.
«Tu hai fatto questo, verme?» domandò Zeboim. «Da sola?»
«Sì, maestà», rispose umilmente Mina.
«Non ci credo.» Zeboim si guardò rapidamente attorno nella stanza, come fosse certa che dovesse esserci un esercito nascosto tra gli scaffali o un aitante guerriero infilato in un armadio. Non trovando alcunché tranne i ratti, la dea tornò a guardare Mina. «D’altronde eri la cocca di mamma. Deve esserci in te qualcosa di più di quanto appaia in superficie.»
La voce della dea si addolcì, si scaldò alla primavera, un’increspatura di alito sull’acqua inondata dal sole. «Hai scelto un nuovo dio da seguire, bambina?»
Prima lei era stata «verme». Adesso era «bambina». Mina dissimulò il sorriso. Aveva previsto questa domanda e si era preparata la risposta. Tenendo gli occhi bassi, Mina rispose: «La mia devozione e la mia fede vanno a chi è morto».
Zeboim si accigliò, spiaciuta. «Bah! Takhisis non può fare più niente per te. Una fede come la tua andrebbe ricompensata.»
«Io non chiedo alcuna ricompensa», ribatté Mina. «Io cerco soltanto di servire.»
«Sei una bugiarda, bambina, ma una bugiarda tanto divertente che ci passerò sopra.»
Con una fitta di preoccupazione, Mina alzò lo sguardo verso la dea. Zeboim le aveva forse letto nel cuore?
«I meno intelligenti del pantheon potrebbero lasciarsi ingannare dalla tua ostentazione di pietà, ma io no», proseguì sdegnosa Zeboim. «Tutti i mortali vogliono una ricompensa in cambio della loro fede. Nessuno fa mai qualcosa per niente.»
Mina respirò più sollevata.
«Coraggio, bambina», proseguì Zeboim con tono adulatorio, «hai rischiato la vita per annientare questo verme di Krell. Qual è la vera ragione? E non dirmi che l’hai fatto perché il suo tradimento offendeva il tuo fine senso dell’onore».
Mina alzò lo sguardo per incrociare gli occhi grigio-verdi della dea. «Io desidererei effettivamente qualcosa, se non è chiedere troppo, maestà.»
«Mi pareva!» Zeboim era soddisfatta. «Che cosa vuoi, bambina? Una cassa da marinaio piena di smeraldi? Mille fili di perle? Una tua flotta di velieri? O forse il favoloso tesoro dei Cavalieri delle Tenebre nascosto nelle cripte di sotto? Mi sento generosa. Dimmi il tuo desiderio e te lo concederò.»
«L’elmo del cavaliere della morte, mia signora», rispose Mina. «È questo che voglio.»
«Il suo elmo?» ripeté Zeboim, strabiliata. Fece un gesto di disprezzo verso l’elmo che giaceva per terra, accanto alla mano mummificata di una sua vittima. «Quel mucchio di metallo non vale quasi niente. Un circo itinerante potrebbe darti qualche moneta in cambio, ma dubito che anche questo possa essere molto interessato.»
«Nondimeno è ciò che voglio», ribadì Mina. «È il mio desiderio.»
«Prendilo, allora, senza dubbio», acconsentì Zeboim, soggiungendo con un mormorio: «Sciocca ragazzina. Avrei potuto renderti ricca più di quanto tu abbia mai sognato. Non riesco a immaginare che cosa vedesse in te mia madre».
Mina si alzò in piedi. Consapevole dello sguardo infastidito della dea su di lei, oltrepassò il tabellone del khas, l’armatura caduta, le due sedie, fino all’angolo opposto. L’elmo a cranio d’ariete giaceva a terra. Mina diede un’occhiata a Zeboim. Gli occhi sempre cangianti della dea erano diventati grigi come le mura di pietra del Bastione. I venti inquieti le agitavano i capelli e gli abiti.
«Sperava di intrappolarmi», disse fra sé Mina, girandosi dall’altra parte. «Mantenermi in debito con lei colmandomi di ricchezze. Io non ho mentito. La mia devozione e la mia fede vanno a chi è morto, ma non alla morta a cui pensava lei.»
Mina raccolse l’elmo, lo esaminò con curiosità. Le corna d’ariete si arricciavano all’indietro a partire dall’orribile cranio che formava la visiera. Ciascun cavaliere era libero di scegliere il proprio simbolo da usare nel disegno dell’armatura. Mina trovava affascinante che Krell avesse scelto un ariete. Doveva sentire il bisogno di dimostrare qualcosa. Sollevò il pesante elmo e se lo ficcò goffamente sottobraccio. Le punte delle corna e i margini frastagliati d’acciaio le punzecchiavano fastidiosamente la carne.
«Qualcos’altro?» domandò caustica Zeboim. «Forse vorresti uno dei suoi stivali come souvenir?»
«Vi ringrazio, mia signora», disse Mina, fingendo di non notare il sarcasmo. Fece un inchino. «Vi riverisco e vi onoro.»