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«Mi basta afferrarti per i peli e trascinarti di nuovo...»

Zeboim ritrasse la mano, la scrutò, aspettandosi di vedere l’anima di Krell, piccola per la paura e gemente, a dimenarsi nel pugno.

Aveva la mano vuota.

Zeboim guardò nel piano di esistenza immortale, alla ricerca dell’anima di Krell.

Il piano era vuoto.

Zeboim diede un colpo con la mano all’armatura metallica, che si disintegrò in frammenti di metallo non più grandi di un granello di polvere. Febbrilmente la dea agitò i frammenti.

L’armatura era vuota. Niente appostato al suo interno che cercasse di sottrarsi all’ira di lei.

Rapida come venti di uragano, Zeboim girò per tutto il Bastione, perlustrando ogni fessura e ogni crepa. Fu tentata di svellere la fortezza, pietra su pietra, ma avrebbe soltanto perso tempo. Capì la verità. L’aveva intuita nel momento in cui aveva toccato quell’armatura vuota. Le ripugnava ammetterlo.

Krell non c’era più. Le era sfuggito.

Zeboim vide Mina in ginocchio, udì le sue parole.

La mia devozione e la mia fede vanno a chi è morto.

«Ah, piccola vacca astuta.» Zeboim imprecò selvaggiamente. «Piccola vacca astuta, cospiratrice, ladra. "La mia fede va a chi è morto". Non intendevi mia madre. Intendevi Chemosh!»

Pronunciò il nome in un empito di furia che fece ribollire e schiumare i mari. I venti di tempesta infuriarono, i fiumi strariparono. L’ira di Zeboim scosse le fondamenta stesse dell’Abisso, dove Chemosh percepì la furia della dea e sorrise.

9

Chemosh percorreva a grandi passi il mondo, attendendo che Mina tornasse da lui. Cercò di interessarsi a ciò che avveniva nel mondo, poiché si stavano svolgendo eventi che avrebbero avuto un effetto sui suoi progetti e sulle sue ambizioni. Osservò con preoccupazione il concentramento di truppe dei minotauri a Silvanesti. Sargonnas si stava preparando ad assumere il comando del pantheon delle Tenebre e non sembrava esserci molto che potesse fermarlo adesso. Chemosh aveva qualche idea in proposito, ma non era ancora pronto a metterla in pratica. Pazienza. Questa era la soluzione. La fretta è cattiva consigliera.

Passò a dare un’occhiata a Mishakal, poiché di recente l’aveva aggiunta all’elenco di dèi che minacciavano la sua ambizione. Non riusciva a crederci, ma quella dea, che un tempo era stata nota per i suoi modi gentili e senza pretese, ultimamente era divenuta piuttosto militante. Incominciava a infastidire seriamente Chemosh, poiché i suoi chierici non si limitavano a sedersi al capezzale dei malati ma molestavano i chierici di lui, abbattendone i templi e uccidendone gli zombie. Certo, a Chemosh non piacevano molto gli zombie, ma erano suoi e ucciderli era un affronto a lui stesso. Presto avrebbe sistemato anche questa cosa. Avrebbe presentato a Mishakal e a quei pietisti dei suoi chierici un mistero tenebroso che avrebbero avuto difficoltà a risolvere, purché Mina dimostrasse di essere tutto quanto lui riteneva e sperava che fosse.

Gli altri dèi non costituivano una grossa minaccia. Kiri-Jolith era concentrato sul ristabilimento del suo culto fra i Cavalieri di Solamnia e altri individui bellicosi. Chislev danzava con gli unicorni nella sua foresta, contenta di avere di nuovo con sé gli alberi. Majere osservava una coccinella arrampicarsi sullo stelo di un dente di leone e si meravigliava per la perfezione dell’insetto e della pianta. Gli dèi della magia erano coinvolti nella loro politica e nei bisticci su che fare riguardo al flagello della stregoneria che aveva risollevato la testa giocosa nel loro mondo ben ordinato. Gli dèi della neutralità se ne andavano qua e là rimanendo saldamente neutrali e non vincolati a niente, per timore che anche un semplice starnuto sconvolgesse il delicato equilibrio in favore di una parte o dell’altra.

Qualcosa l’avrebbe sconvolto e non sarebbe stato uno starnuto. Mina era il peso d’oro in mano al Signore della Morte, il peso d’oro che sarebbe caduto sul piatto della bilancia e l’avrebbe rovesciata completamente.

Chemosh non era stato per nulla certo che Mina riuscisse nell’impresa da lui assegnatale. Sapeva che lei era una mortale straordinaria, ma era mortale e per giunta era umana, una combinazione spesso insoddisfacente. Lui era rimasto piacevolmente sorpreso quando Mina era scesa dalla piccola barca a vela, portando fra le braccia il fagotto con l’elmo. Più che sorpreso, era ammirato. Erano trascorsi millenni dall’ultima volta in cui aveva guardato un mortale con qualcosa di simile all’ammirazione.

Il loro luogo di appuntamento concordato era un antico tempio dedicato al suo culto a una certa distanza dalla costa di Solamnia. Lui l’aspettava lì, attento a mantenersi fuori della visuale, poiché Zeboim avrebbe osservato Mina fintanto che avesse navigato sul mare e forse anche dopo lo sbarco. Pertanto aveva istruito Mina a mantenere Zeboim con la guardia abbassata facendo visita al suo tempio.

Il tempio in cui dovevano incontrarsi era stato un mausoleo, progettato e costruito da una nobile signora addolorata per il suo nobile marito. Il nome della famiglia, scolpito sul lato anteriore del mausoleo, si era eroso, così come il blasone. L’atrio era caduto in rovina. Non ne rimaneva niente tranne le fondamenta, poiché i materiali usati per la costruzione erano stati portati via dagli abitanti del luogo per essere riutilizzati nella ricostruzione di case danneggiate nel Primo Cataclisma. Il mausoleo rimaneva però intatto e in condizioni relativamente buone. Nessuno osava toccarlo, poiché secondo la leggenda si poteva ancora udire il piagnucolio addolorato della vedova in lutto e vedere la sua figura spettrale piangere sulle scale di marmo.

Costruito in marmo nero, il mausoleo era quasi un piccolo palazzo. Quattro guglie riccamente ornate e intagliate si trovavano agli angoli di un tetto a punta aguzza, circondato da una delicata filigrana in ferro battuto. Un portico con colonne alla sommità della famosa scalinata di marmo riparava un’immensa porta di bronzo. All’interno del mausoleo, due file di colonne sottili si ergevano come sentinelle sui due lati dell’enorme tomba di marmo che recava il blasone di famiglia, e tutto attorno alla base era zeppo di altorilievi che descrivevano i momenti insigni della vita di quell’uomo.

La nobildonna aveva costruito all’estremità opposta del mausoleo un altare e l’aveva dedicato a Chemosh. Qui era venuta a pregare ogni giorno il Dio della Morte, giurando di non lasciare mai quel luogo finché lui non le avesse restituito il marito. Poiché l’anima del marito era già passata oltre, Chemosh non fu in grado di esaudire quella preghiera. Tuttavia fece in modo che lei mantenesse la sua promessa solenne. Chemosh era ritornato nel mondo trovando il fantasma di lei ancora lì, ancora piangente sulla scalinata. Aveva dimenticato quanto avesse trovato fastidioso il suo piagnucolio e finalmente la liberò, mandandola a raggiungere suo marito.

Si domandò se non stesse diventando un po’ romantico.

Entrò nel tempio, si guardò attorno. Il mausoleo era ben costruito. Il tetto non perdeva; l’edificio era asciutto, non era né ammuffito né umido. Vi era all’interno un unico cadavere che era rimasto decentemente sepolto. Niente tibie o teschi dispersi a ingombrare quel luogo. I seguaci di Chemosh, non turbati dal fantasma, si erano trasferiti nel mausoleo durante la Guerra delle Lance ed erano rimasti lì finché il furto del mondo non li aveva privati del loro dio. Chemosh rimase compiaciuto nel notare che si era trattato di un gruppo insolitamente ordinato, che faceva le pulizie dopo i riti, per cui non vi era cera di candele sul telo dell’altare, né macchie di sangue per terra, né frammenti d’osso rimasti sulla pedana.

Chemosh trovò indizi del fatto che qualcuno (uno di quei nuovi e fuorviati praticanti di negromanzia oppure qualche predatore di tombe) era stato lì dentro di recente. Qualcuno aveva cercato di strappare via il coperchio della tomba usando un piede di porco. Il coperchio di marmo era estremamente pesante e il tentativo era fallito. Avevano razziato anche il suo altare, portando via un paio di candelieri d’oro e un calice incastonato di rubini, entrambi i quali lui se li ricordava distintamente, poiché teneva conto di tutti i suoi oggetti sacri.