Выбрать главу

Mina rabbrividì, sospirò. Aprì gli occhi. Lo guardò, nel profondo degli occhi. Poi, sobbalzando, si guardò il seno.

Il marchio di Chemosh era su di lei, il contorno delle sue labbra, impresso a fuoco nella carne.

«Sei mia, Mina», disse Chemosh.

Il bacio aveva bruciato carne e osso, l’aveva colpita al cuore. Mina sentì agitarsi dentro la potenza che lui le aveva conferito, e si accostò a lui, con le labbra dischiuse, desiderando il suo bacio ripetutamente.

«Sono vostra, mio signore.»

Il desiderio ardeva in lui, e Chemosh non lo mise più in dubbio. L’avrebbe presa, l’avrebbe fatta sua, ma doveva accertarsi che lei capisse.

«Non sarai mia schiava, come eri per Takhisis.»

Chemosh le accarezzò il collo, le passò la mano sull’impronta lasciata dal bacio. La carne era bruciacchiata e incominciava a coprirsi di vesciche dove le labbra di lui l’avevano toccata. Chemosh percorse col dito il contorno del bacio nero.

«Sarai la mia somma sacerdotessa, Mina. Andrai nel mondo e conquisterai seguaci per me, seguaci giovani e forti e bellissimi come te. Io sarò il loro dio, ma tu sarai la loro padrona. Eserciterai potere su di loro, potere assoluto, potere di vita e di morte.»

«Quali stimoli potrò offrire loro, mio signore? Ai giovani non piace pensare alla morte...»

«Offrirai loro un dono da parte mia. Un dono di raro valore, che l’umanità desidera fin dal principio del tempo.»

«Farò tutto ciò che mi chiedete, mio signore, con piacere», disse Mina. Aveva il respiro affannoso.

Chemosh con la mano le scostò all’indietro i capelli rossi. Quei filamenti serici gli si attorcigliarono fra le dita. Mina aveva le labbra calde e impazienti, la carne calda e cedevole al tocco di lui.

Chemosh strinse il corpo contro quello di lei. Mina gli si diede con abbandono appassionato, e lui non si domandò più come un dio potesse trovare piacere fra le braccia di un mortale. Si domandò soltanto perché lui avesse impiegato tanto tempo per scoprirlo.

LIBRO SECONDO

Cenere

1

Il palanchino nero arrivò nella città di Staughton al mattino presto della festa chiamata Alba di Primavera. I festeggiamenti comprendevano una fiera, un banchetto e l’annuale Danza dei Fiori. La celebrazione dell’Alba di Primavera, una delle feste più popolari del calendario, attirava ogni anno a Staughton folle di persone. Anche se il giorno ancora non era altro che una striscia rossa e calda all’orizzonte, le porte che conducevano dentro la città fortificata, situata nel nord dell’Abanasinia, erano già stipate di gente.

Le code si muovevano piuttosto rapidamente, poiché le guardie erano di buonumore, al pari di quasi tutti nella folla. L’Alba di Primavera contrassegnava la fine dell’inverno buio e freddo e il ritorno del sole. La festa era una celebrazione schiamazzante che inneggiava alla vita. Ci sarebbero state bevute e danze e risate e qualche lieve danno. I partecipanti si sarebbero svegliati il giorno dopo con mal di testa, ricordi confusi e vaghi sensi di colpa, il che significava che dovevano essersi divertiti moltissimo. I bambini che nascevano nove mesi dopo questa notte erano chiamati figli dell’Alba di Primavera ed erano considerati fortunati. Dopo questa festa vi erano sempre numerosi matrimoni allestititi in tutta fretta.

La natura stessa della festa attirava tutti i buoni a nulla da un raggio di vari chilometri: borsaioli, ladri, truffatori, prostitute e giocatori d’azzardo. Le guardie sapevano che era inutile sperare di tenerli tutti fuori dalla città: quelli respinti a una porta avrebbero cercato di entrare da un’altra e alla fine sarebbero riusciti a intrufolarsi. Il borgomastro aveva detto alle guardie che non c’era bisogno di bloccare la coda interrogando diffusamente le persone, rendendole infastidite e incollerite, mentre lui voleva che spendessero denaro alle bancarelle del mercato, nelle locande e nelle taverne della città. Le guardie avevano ordini di respingere tutti i kender, ma questa era più che altro una finzione. Tanto le guardie quanto i kender sapevano che entro mezzogiorno i kender sarebbero sciamati per la città.

L’inverno era stato mite in questa parte dell’Abanasinia, e un po’ per l’inverno mite e un po’ per la morte del temibile drago dominatore Beryl vi era molto da festeggiare. Alcuni proponevano anche di festeggiare il ritorno degli dèi, ma la maggior parte degli abitanti era ambivalente in proposito. Staughton si era sempre considerata una città virtuosa. La popolazione sentì la mancanza degli dèi quando se ne andarono per la prima volta dopo il Primo Cataclisma, ma la vita proseguì, e la popolazione si abituò a non avere dèi in giro. Poi gli dèi ritornarono e la popolazione fu lieta di vederli tornare, e la vita proseguì con gli dèi più o meno come era andata avanti senza di loro. Gli dèi se ne andarono di nuovo, durante il Secondo Cataclisma, e questa volta la popolazione era tanto indaffarata a far andare avanti la vita che a malapena se ne accorse. Adesso gli dèi erano tornati di nuovo e tutti dicevano di essere contenti, ma in realtà era tutto così seccante, dover chiudere i templi, poi riaprirli, richiuderli e aprirli di nuovo. Nel frattempo la vita andava avanti.

Staughton era un paesino di circa duecento abitanti all’epoca del Primo Cataclisma. Nei secoli successivi era cresciuta e aveva prosperato. La sua popolazione adesso ammontava a circa seimila persone e si era estesa due volte più in là delle mura, le quali erano state abbattute, portate più all’esterno e ricostruite. Vi erano la parte interna chiamata Città vecchia e l’anello esterno chiamato Città nuova e un’ulteriore estensione che ancora non aveva una denominazione ufficiale ma sul luogo veniva chiamata «nuovissima». Tutte le zone della città era state ripulite in onore della festa e decorate con festoni e fiori primaverili. I giovani si erano svegliati presto, impazienti per l’inizio dei divertimenti. Questa era la giornata in cui potevano fare baldoria, una giornata in cui mamme e papà chiudevano opportunamente un occhio su baci rubati e appuntamenti a mezzanotte.

Questa era la giornata e questo era l’umore della città e della sua popolazione quando il palanchino nero giunse ondeggiante in vista, muovendosi lento e maestoso lungo la strada verso la città. Attirò immediatamente l’attenzione. Coloro che facevano la coda, non appena lo videro, lo fissarono sbalorditi, quindi tirarono per la manica quelli che stavano davanti a loro, dicendo di voltarsi a guardare. Ben presto l’intera coda di gente in attesa di entrare in città allungava il collo ed esclamava di meraviglia a quella vista.

Il palanchino non si unì alla coda ma avanzò lungo la strada verso la porta. La gente si trasse di lato e lasciò passare il palanchino. Sulla folla cadde un silenzio sgomento e inquieto. Nessuno, dal nobile cavaliere al mendico itinerante, aveva mai visto niente di simile.

Le tende che coprivano il palanchino erano di seta nera che ondeggiava dolcemente col movimento dei portantini. L’intelaiatura era nera, ornata di teschi d’oro luccicanti. Ad attirare la massima attenzione erano i portantini: quattro femmine umane, ciascuna alta ben più di un metro e ottanta e muscolosa come gli uomini. Ogni donna era identica di aspetto alle altre e tutte erano bellissime. Indossavano lunghe vesti nere diafane che stavano loro attillate al corpo in maniera seducente, cosicché sembrava quasi di poter vedere attraverso il tessuto sottile che fluiva e si increspava al loro procedere. I portantini non guardavano né a destra né a sinistra, nemmeno quando qualche giovane ubriaco li chiamava. Avanzavano a grandi passi, tenendo facilmente in equilibrio sulle spalle quel fardello pesante, e il loro volto era indurito e freddo e privo di espressione.

Coloro che riuscivano a guardare qualcosa al di fuori dei portantini fissavano il palanchino, cercando di scorgere la persona all’interno. Spesse tende nere, appesantite da una frangia di perline d’oro, ostruivano la vista.

Mentre passava il palanchino, un uomo (un chierico di Kiri-Jolith) riconobbe i teschi d’oro sul fianco.