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«State attenti, amici miei», gridò, accorrendo per fermare alcuni bambini turbolenti, che correvano dietro il palanchino. «Quei teschi sono simboli di Chemosh!»

Immediatamente la notizia secondo cui la persona nel palanchino era un chierico del Signore della Morte di diffuse lungo tutta la gente in coda. Alcuni rabbrividirono e distolsero lo sguardo, ma i più rimasero affascinati. Dal palanchino non emanava alcuna sensazione di terrore; anzi, dalle tende ondeggianti si spargeva la dolce fragranza di un profumo speziato.

Il chierico di Kiri-Jolith, che si chiamava Lleu, vide che la gente era curiosa, non spaventata, e lui si sentì a disagio, incerto sul da farsi. I chierici di tutti gli dèi si aspettavano che Chemosh cercasse di strappare via a Sargonnas le redini del potere. Da un anno, fin dal ritorno degli dèi, i chierici facevano congetture su quale mossa audace avrebbe fatto Chemosh. Adesso sembrava che si fosse finalmente messo in marcia. Lleu vedeva nella folla molti che lo osservavano con grandi aspettative, sperando che facesse una scenata. Lui rimase in silenzio, mentre gli strani portantini lo superavano a grandi passi, anche se fissò intensamente le tende, cercando di vedere chi vi fosse all’interno.

Dopo il passaggio del palanchino, Lleu abbandonò il suo posto in coda per seguirlo con discrezione, camminando lungo i margini della folla. Quando il palanchino raggiunse la porta, la persona all’interno si sarebbe dovuta fare riconoscere dalle guardie, e Lleu intendeva darle un’occhiata.

Molti altri ebbero la stessa idea, però, e la folla avanzò, accalcandosi dietro il palanchino, e la gente si spintonava per cercare di conquistare una buona visuale. Le guardie, avendo udito le dicerie secondo cui questo aveva a che fare con Chemosh, avevano inviato un messaggero a grande velocità a chiedere ordini allo sceriffo. Lo sceriffo arrivò a cavallo per prendere il comando della situazione e interrogare questa persona. Sulla folla calò un silenzio assoluto quando il palanchino arrivò alla porta, e tutti attesero di sentir parlare il misterioso occupante.

Lo sceriffo diede un’occhiata al palanchino e alle femmine che lo reggevano e si grattò il mento, chiaramente perplesso.

«Mio signore sceriffo», sussurrò Lleu, «se posso essere d’aiuto...»

«Fratello Lleu, sono contento che siate tornato!» esclamò lo sceriffo, sollevato. Si chinò dalla sella per un breve colloquio. «Pensate che sia un sacerdote di Chemosh?»

«Questa è la mia ipotesi, signore», disse Lleu. «Sacerdote o sacerdotessa.» Scrutò il palanchino. «I teschi d’oro sono indubbiamente quelli di Chemosh.»

«Che faccio?» Lo sceriffo era un uomo grosso e robusto, abituato ad affrontare risse in taverna e ladri di strada, non femmine alte un metro e ottanta, che non muovevano gli occhi e trasportavano un palanchino contenente un viaggiatore misterioso. «Li mando via?»

Lleu fu tentato di rispondere di sì. L’arrivo di Chemosh non era di buon auspicio per nessuno, lui ne era convinto. Lo sceriffo aveva il potere di negare l’ingresso a chiunque per qualsiasi motivo.

«Chemosh è un dio del male. Ritengo che rientri certamente nei vostri poteri...»

«... fare che cosa?» gridò una donna, con la voce tremante per l’indignazione. «Proibire al sacerdote di Chemosh di entrare nella nostra città? Immagino che la prossima volta vorrete bruciare il mio tempio e scacciare me!»

Lleu sospirò profondamente. La donna indossava la lunga veste verde e azzurra di una sacerdotessa di Zeboim. La città di Staughton era edificata sulle rive di un fiume. Zeboim era una delle dee più seguite in città, specialmente durante la stagione delle piogge. Se lo sceriffo avesse negato l’accesso a un rappresentante di un dio delle tenebre, si sarebbero diffuse voci sull’eventualità che Zeboim sarebbe stata la prossima ad andarsene.

«Permettete loro di entrare», mormorò Lleu, soggiungendo ad alta voce affinché la folla sentisse: «Gli dèi della luce favoriscono il libero arbitrio. Noi non diciamo alla gente che cosa possa o non possa credere».

«Siete sicuro?» domandò lo sceriffo, accigliandosi. «Io non voglio guai.»

«Questo è il mio consiglio, signore», ribadì Lleu. «La decisione finale naturalmente spetta a voi.»

Lo sceriffo spostò lo sguardo da Lleu alla sacerdotessa di Zeboim al palanchino. Nessuno di loro gli offriva molto aiuto. La sacerdotessa di Zeboim lo osservava stringendo gli occhi. Lleu aveva detto tutto quanto avesse da dire. Il palanchino era fermo davanti alla porta, con i portantini in paziente attesa.

Lo sceriffo avanzò per rivolgersi all’occupante invisibile.

«Dichiarate il vostro nome e la natura delle vostre attività nella nostra bella città», disse con tono sbrigativo.

La folla trattenne collettivamente il fiato.

Per un attimo non vi fu risposta. Poi una mano, una mano femminile, scostò le tende. La mano era aggraziata. Gioielli rossi come il sangue luccicavano sulle dita snelle. Lleu intravide la donna dentro il palanchino nero. Rimase a bocca aperta e con gli occhi spalancati.

Non aveva mai visto prima d’ora una donna simile. Era giovane, neanche ventenne. Aveva i capelli castano ramati, del colore delle foglie d’autunno, acconciati in maniera elaborata sotto un copricapo nero e oro. Gli occhi erano d’ambra, luminosi, radiosi, caldi, come se tutto il mondo fosse stato freddo e i suoi occhi l’unico calore rimasto all’uomo. La donna indossava un abito nero di qualche tessuto impalpabile che lasciava intendere tutto quanto vi era sotto ma non rivelava nulla. La donna si muoveva con grazia studiata e in quegli occhi vi era un’aria di sapienza, una conoscenza di segreti che nessun altro mortale possedeva.

Quella donna era inquietante. Pericolosa. Lleu voleva girare sui talloni e allontanarsi con disdegno, invece rimase a fissarla, incantato, incapace di muoversi.

«Mi chiamo Mina», disse la donna. «Sono venuta nella vostra città con lo stesso scopo di tutta questa buona gente.» Fece un gesto per indicare la folla. «Per partecipare alle celebrazioni della primavera.»

«Mina!» esclamò Lleu restando senza fiato. «Conosco questo nome.»

Kiri-Jolith è un dio militante, un dio dell’onore e della guerra, patrono dei Cavalieri di Solamnia. Lleu non era un cavaliere, e nemmeno di Solamnia, ma si era recato a Solamnia per studiare con i cavalieri quando aveva deciso di consacrarsi a Kiri-Jolith. Aveva udito da loro le storie della Guerra delle Anime, aveva udito i racconti di una giovane donna di nome Mina che aveva guidato i suoi eserciti delle tenebre a una vittoria strabiliante dopo l’altra, compreso l’annientamento del grande drago dominatore Malys.

«Ho sentito parlare di voi. Siete una seguace di Takhisis», disse aspramente Lleu.

«La dea che salvò il mondo dal terrore dei draghi dominatori. La dea che fu spregevolmente tradita e annientata», specificò Mina. Un’ombra le incupì gli occhi d’ambra. «Io onoro la sua memoria, ma adesso seguo un dio diverso.»

«Chemosh», disse Lleu in tono accusatorio.

«Chemosh», disse Mina, e abbassò gli occhi con riverenza.

«Signore della Morte!» soggiunse Lleu, con tono di sfida.

«Signore della Vita Eterna», ribatté Mina.

«Allora è così che si fa chiamare di questi tempi», commentò Lleu sprezzante.

«Venite a trovarmi per scoprirlo», propose Mina.

La sua voce era calda come gli occhi, e Lleu all’improvviso si accorse della folla radunata attorno a lui, con gli orecchi tesi per udire ogni parola. Adesso tutti guardavano lui, domandandosi se avrebbe accettato l’invito, e Lleu si rese conto, con mortificazione, di essere stato attirato in una trappola. Se avesse rifiutato, avrebbero pensato che avesse paura di affrontare Chemosh e sarebbero subito balzati alla conclusione che questo doveva essere un dio potente, eppure Lleu non voleva parlare con questa donna. Non voleva trovarsi in presenza di lei.

«Sono appena ritornato dopo una lunga assenza», spiegò Lleu, prendendo tempo. «Ho molte cose da fare. Se ne trovo il tempo, forse passo per una discussione teologica con voi. Ritengo che possa essere piuttosto interessante.»