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Lleu sapeva che il proprio consiglio era saggio, ma scoprì di non riuscire a rimettersi al lavoro. Percorse a grandi passi il tempio, confuso e in disaccordo con se stesso. Ogni volta che passava davanti alla statua del dio, Lleu guardava quel volto severo e implacabile e desiderava di possedere una simile determinazione e forza di volontà. Un tempo pensava di averle. Rimase turbato nello scoprire che forse non era così.

Stava ancora camminando su e giù quando alla porta del tempio qualcuno bussò. Il chierico aprì la porta e trovò un garzone della locanda.

«Ho un messaggio per padre Lleu», esordì il ragazzo.

«Sono io», disse Lleu.

Il garzone gli porse un rotolo legato con un nastro nero e sigillato con cera nera.

Lleu si accigliò. Fu tentato di sbattere la porta in faccia al garzone, poi si rese conto che si sarebbe diffusa la notizia che lui aveva paura. Era giovane e insicuro. Non si trovava da molto a Staughton e si sforzava di consolidare se stesso e la sua religione in una città a cui il culto interessava solo marginalmente. Prese il rotolo.

«Hai il permesso di andare», disse al garzone.

«Devo rimanere, padre, caso mai vi sia una risposta.»

Lleu stava per dire che non ci sarebbe stata risposta, che lui non aveva nulla da dire a una somma sacerdotessa di Chemosh, ma di nuovo pensò a che cosa ne avrebbero pensato. Strappò via il nastro nero, ruppe il sigillo e lesse in fretta la missiva.

Pregusto la discussione con voi. Sarò libera di ricevervi all’ora in cui sorge la luna.

In nome di Chemosh.

Mina

«Riferisci alla somma sacerdotessa Mina che mi piacerebbe molto parlare di teologia con lei, ma ho questioni urgenti da sbrigare nel mio tempio», fu la risposta di Lleu. «Ringraziala per avere pensato a me.»

«Ci ripenserei se fossi in voi, padre», suggerì il garzone strizzando l’occhio. «Quella è uno splendore.»

«La somma sacerdotessa è una religiosa ed è più vecchia di te», disse Lleu, guardandolo con occhio torvo. «E anch’io. Tu ci devi maggiore rispetto.»

«Sì, padre», disse il garzone a quel rimprovero. Sgattaiolò via.

Lleu ritornò all’altare. Il chierico tornò a guardare il volto di Kiri-Jolith, questa volta per ricevere rassicurazione.

Il dio lo osservò con uno sguardo freddo. Lleu quasi ne sentiva la voce: «Non voglio codardi al mio servizio».

Lleu non pensava di agire da codardo, ma da persona sensata. Non aveva bisogno di scambiare parole con questa donna e certamente non aveva interesse per Chemosh.

Tornò nel suo studio per finire la lettera.

La penna d’oca schizzò. Lleu rovesciò l’inchiostro. Alla fine si arrese. Guardando fuori verso la pioggia battente che picchiava sul tetto del tempio come un tamburo che chiamasse a battaglia tutti i veri cavalieri, Lleu cercò di liberarsi del ricordo di quegli occhi d’ambra.

All’ora del sorgere della luna Lleu era fuori della locanda. Guardò le statue di marmo, che brillavano di una luce spettrale al chiarore argenteo della luna Solinari. Zeboim, a quanto pareva, si era stancata e aveva condotto altrove il suo accesso di stizza, poiché il temporale finalmente si era placato e le nubi imbronciate se n’erano andate.

Lleu trovò le statue profondamente inquietanti. Bramava toccarne una ma temeva che vi fosse ancora gente a osservare. Rabbrividì, poiché la notte primaverile era fresca e umida, e si guardò attorno. Dall’area dei festeggiamenti provenivano rumori di risate e bisbocce. In quell’area vi erano birra gratis e un maiale arrosto e quasi tutta la cittadinanza partecipava alla festa. La locanda era silenziosa.

Lleu allungò la mano per toccare una delle statue.

La porta della locanda si aprì e Lleu rapidamente tirò indietro la mano.

In piedi sulla soglia stava Mina, una figura snella di tenebra sullo sfondo di un chiarore di caminetto.

«Entrate», lo invitò Mina. «Sono lieta che abbiate cambiato idea.»

Mina non aveva l’aspetto di una somma sacerdotessa. Si era cambiata, abbandonando l’abito morbido e allettante e togliendosi il copricapo nero e oro. Indossava una lunga e leggera veste nera aperta sul davanti, allacciata in vita da una cintura di cordino d’oro. I capelli castano ramati erano semplicemente intrecciati e attorcigliati sul capo, tenuti fermi da una spilla d’ambra ingioiellata. Nell’aria si spandeva un profumo di mirra.

«Non posso fermarmi», si affrettò a dire Lleu.

«Certo che no», disse Mina in tono comprensivo.

Si fece da parte per lasciarlo entrare.

La sala di ritrovo era deserta. Mina voltò le spalle a Lleu e prese a salire le scale.

«Dove andate?» domandò Lleu.

Mina si girò per guardarlo in viso. «Ho ordinato una cena leggera. Ho chiesto che mi venga servita nella mia stanza. Avete cenato? Volete unirvi a me?»

Lleu arrossì. «No, grazie. Credo che ritornerò al tempio. Ho del lavoro da sbrigare...»

Mina andò da lui, gli posò la mano sull’avambraccio e gli sorrise, con un sorriso amichevole, innocente. «Come vi chiamate?»

Lui esitò, temendo che perfino darle quella piccola informazione potesse in qualche modo intrappolarlo.

Alla fine rispose: «Mi chiamo Lleu Mason».

«Io mi chiamo Mina, ma lo sapete già. Siete venuto qui per una discussione teologica, e la sala di ritrovo di una locanda non è proprio il luogo adatto per trattare questioni serie, non credete?»

Lleu Mason era un giovane di poco più di vent’anni. Aveva capelli biondi che portava alla maniera dei chierici di Kiri-Jolith: lunghi fino alle spalle, con scriminatura centrale e frangetta dritta. Aveva gli occhi marroni e intensi, con uno sguardo inquieto e indagatore. Era ben proporzionato, con i muscoli da soldato, non da studioso, il che non sorprendeva. I chierici di Kiri-Jolith si addestravano assieme ai cavalieri di cui erano al servizio ed erano noti fra i chierici di Ansalon per essere abili nell’uso della spada lunga. Suo nonno era stato un muratore, e per questo lui si chiamava Mason.

Guardò Mina. Si guardò attorno nella locanda, ma non ne vide granché. Fece un lieve sorriso.

«No, non è molto adatta.» Lleu inspirò profondamente. «Verrò di sopra con voi.»

Mina tornò a salire le scale. Questa volta lui la seguì. Lleu era solennemente cortese, si spostò per precederla lungo il corridoio e le aprì la porta della stanza. Era una sala da pranzo privata con tavolo e sedie e un caminetto acceso. Il tavolo era apparecchiato. Un servitore si trovava ossequente sullo sfondo. Lleu fece accomodare Mina e poi si sedette di fronte a lei.

La cena era buona, con carni arrosto e pane, seguiti da un dolce. Durante il pasto parlarono poco, poiché era presente il servitore. Quando ebbero terminato, Mina lo congedò. Presero entrambi un boccale di vino, ma nessuno dei due bevve molto, si limitarono a sorseggiare mentre spostavano le sedie verso il caminetto.

Parlarono della famiglia di Lleu. Il fratello maggiore, ora trentacinquenne, era diventato un mastro muratore e lavorava col padre nell’azienda di famiglia. Lleu era il più giovane e non aveva interesse per i lavori in muratura. Sognava di diventare un soldato e a questo scopo si era recato a Solamnia. Una volta lì era stato introdotto al culto di Kiri-Jolith e si era reso conto che la sua vera vocazione era servire il dio.

«Si potrebbe dire che la chiesa sia una costante nella mia famiglia», soggiunse con un sorriso. «Mia nonna era chierica di Paladine e il mio fratello di mezzo è un monaco dedito al culto di Majere.»

«Davvero?» disse Mina, interessata. «Che pensa vostro fratello del fatto che voi siete diventato un chierico di Kiri-Jolith?»

«Non ne ho idea. Il suo monastero è situato in qualche luogo isolato e i monaci raramente se ne allontanano. Da molti anni non vediamo mio fratello né abbiamo sue notizie.»

«Da molti anni.» Mina era perplessa. «Come può essere? Gli dèi, compreso Majere, sono ritornati nel mondo appena poco più di un anno fa.»

Lleu alzò le spalle. «A quanto mi raccontano, alcuni di questi monasteri sono tanto isolati che i monaci non sapevano niente di quello che accadeva nel mondo. Hanno mantenuto il loro modo di vivere fatto di meditazione e preghiera malgrado non avessero alcun dio a cui pregare. Una simile vita è adatta a mio fratello. Lui è sempre stato austero e ritirato, dedito a vagare da solo per le colline. Ha dieci anni più di me, per cui io non l’ho mai conosciuto bene.»