Suo fratello e i suoi genitori sarebbero stati lì e si sarebbero aspettati che lui sedesse con loro. L’incontro sarebbe stato fastidioso. Avrebbero voluto parlare con lui di suo fratello, ma sarebbero stati riluttanti a discutere di Lleu in presenza degli altri monaci. E così la loro conversazione si sarebbe limitata a questioni familiari: le attività lavorative del padre, la notizia della nascita dell’ultimo nipote da parte di sua madre. Poiché Rhys non sapeva niente di tutto questo, e in verità non gli interessava, non avrebbe dato alcun contributo. Loro non sarebbero stati particolarmente interessati alla sua vita. La conversazione si sarebbe inceppata e prima o poi smorzata in un silenzio teso.
«Io sono più utile qui», si disse Rhys.
Rhys rimase col suo dio, unendosi a lui; la mente dell’essere umano si liberava del corpo per toccare la mente della divinità, un contatto che il Maestro paragonava alla manina minuscola del neonato che si agita e trova e stringe forte un dito della mano enorme di suo padre. Rhys presentò a Majere le proprie preoccupazioni riguardo a Lleu, passando al vaglio i molti interrogativi nella sua mente e in quella del dio, sperando di trovare risposte, sperando di trovare qualche modo per essere d’aiuto.
Discese tanto in profondità nel suo stato meditativo che perse ogni cognizione del tempo. A poco a poco, una fitta fastidiosa, come l’inizio di un mal di denti, divenne tanto irritante che Rhys fu costretto a prestarvi attenzione. Provando una vera riluttanza e tristezza per essere costretto a ritornare nel mondo degli uomini, si separò dal dio. Aprì gli occhi, percependo che qualcosa non andava.
Dapprima non riuscì a capire che cosa. Tutto sembrava a posto. Il sole era tramontato, era calata l’oscurità. Atta dormiva pacificamente sull’erba. Niente cani che abbaiassero, niente allarmi dall’ovile o dalla stalla, niente odore di fumo che indicasse un incendio. Eppure qualcosa non andava.
Rhys balzò in piedi, e il suo movimento improvviso fece sussultare Atta, che si rigirò sul ventre, gli orecchi tesi, gli occhi spalancati.
Allora Rhys capì. La campana dell’addestramento con le armi non aveva suonato.
Rhys per un attimo dubitò di se stesso. Il suo orologio interno poteva ben essere stato sballato dal suo profondo stato meditativo. Eppure un’occhiata alla posizione della luna e delle stelle gli confermò il suo calcolo. In tutti i quindici anni che aveva trascorso al monastero e in tutti gli anni di esistenza del monastero stesso la campana dell’addestramento aveva suonato ogni sera alla stessa ora immancabilmente.
Rhys fu colto dalla paura. L’addestramento era una parte importante della disciplina praticata dai monaci. Un’interruzione dell’addestramento poteva essere normale in qualunque altro luogo. Un’interruzione nell’addestramento dei monaci era devastante, catastrofica. Rhys raccolse l’emmide e con Atta ritornò di corsa al monastero. Aveva una visione notturna ben sviluppata per il fatto di dover fare pratica con le armi nell’oscurità profonda durante i mesi invernali, e conosceva ogni centimetro di terreno. Sapeva (e una volta gli era capitato) ritrovare la strada di ritorno in una nebbia fitta nella notte più buia. Questa sera la luce argentea di Solinari illuminava il cielo scuro e le stelle vi aggiungevano la loro pallida radiosità. Rhys vedeva chiaramente la strada.
Fu sul punto di ordinare ad Atta di tornare all’ovile. Decise invece, quando aveva ormai il comando sulle labbra, di tenerla con sé, almeno fino a quando avesse saputo che cosa non andava.
Arrivò nel cortile del monastero e trovò tutto silenzioso e pacifico: brutto segno. I monaci dovevano essere nel campo di addestramento, ad ascoltare un maestro dare dimostrazione di una tecnica oppure a fare pratica con i compagni. Rhys avrebbe dovuto udire il rumore dei colpi di emmide e di asta, i grugniti degli sforzi, i tonfi quando un compagno ne abbatteva un altro. E per tutto il tempo le voci dei maestri che rimproveravano, correggevano, lodavano.
Rhys si guardò rapidamente attorno. Una luce gialla fuoriusciva dalle finestre della sala da pranzo dove venivano serviti i pasti ai monaci. Già questo non andava bene. A quest’ora della sera le luci venivano spente, i tavoli erano puliti, i taglieri di legno e le stoviglie, i bollitori e le pentole erano lavati e pronti per la colazione dell’indomani. Rhys si diresse da quella parte, sperando in qualche spiegazione logica. Gli venne in mente che il Maestro poteva essere a colloquio con i suoi familiari e questo avrebbe impedito agli altri monaci di procedere all’addestramento perché lui aveva bisogno della loro assistenza. Un simile evento era completamente fuori norma, ma non fuori dell’ambito delle possibilità.
La porta principale conduceva alla sala di ritrovo del monastero. Rhys vide dalle finestre che era buia, come doveva essere a quest’ora della sera. Spinse la porta per aprirla e stava per entrare quando Atta emise un suono strano: una sorta di gemito spaventato. Rhys abbassò lo sguardo verso di lei, preoccupato. I due lavoravano assieme da cinque anni e lui non l’aveva mai sentita emettere quel rumore. La cagna guardava la stanza oscurata. Rabbrividì e gemette di nuovo.
Lì davanti vi era qualcosa di terribile. Non fuorilegge o predoni o ladri. Non un orso entrato barcollando nell’edificio, com’era accaduto una volta. La cagna avrebbe saputo come reagire in questo caso. Era qualcosa che lei non capiva, ed era terrificante.
Rhys avanzò di un passo, lento e cauto.
Tutto era silenzioso. Nessuna voce si levava e si abbassava con un saggio consiglio. Non si sentivano voci di nessun genere. L’aria era pervasa da un odore fetido, come nella camera di un ammalato.
L’istinto di Rhys era di correre dentro per vedere che cosa fosse successo. La disciplina e l’addestramento frenarono tale impulso. Lui non aveva modo di sapere che cosa vi fosse lì davanti. Fece un gesto ad Atta per dirle «avvicinati» e la cagna rallentò il passo, si accovacciò e avanzò lentamente al suo fianco. Rhys afferrò l’emmide ed entrò furtivamente nella sala di ritrovo, senza fare alcun rumore con i piedi nudi.
La sala di ritrovo si apriva sulla sala da pranzo. All’interno ardevano luci e Rhys, sebbene non vedesse nulla tranne l’estremità di una panca, udì un rumore debole, un rumore strano, una sorta di mormorio. Non riuscì a distinguere parole, se vi erano parole.
Avanzò con cautela, ascoltando e tenendo d’occhio la sala davanti a sé. Poteva confidare in Atta perché l’avvertisse se qualcuno o qualcosa fosse stato sul punto di balzare contro di lui dal buio. Rhys però non aveva alcuna sensazione della presenza di qualcuno appostato in questa sala. Il pericolo stava nella luce, pareva, non nelle ombre. L’odore nauseabondo si intensificò.
Rhys raggiunse la sala da pranzo. Il fetore lo fece restare senza fiato, e lui si mise la mano sopra il naso e la bocca. La voce mormorante adesso era più forte, ma tanto bassa che lui ancora non riusciva a distinguere ciò che stava dicendo, né riusciva a individuare la persona che parlava. Restando subito dentro la soglia, in modo da poter vedere senza essere visto, Rhys guardò nella sala da pranzo.
Si fermò, inorridito.
Nel monastero vivevano diciotto monaci. Il loro numero era stato maggiore nei tempi passati, oltre quaranta negli anni successivi alla Guerra delle Lance. La popolazione del monastero era diminuita durante la Quinta Era, quando ce n’erano stati soltanto cinque, e soltanto adesso incominciava a riprendersi. I monaci cenavano in fraterna compagnia a un grande tavolo rettangolare costituito da un lungo tavolato di legno disposto su cavalletti di legno. I monaci sedevano su panche di legno, nove su ciascun lato.
In questo giorno vi erano soltanto diciassette monaci, poiché Rhys aveva preferito saltare la cena. Vi erano gli ospiti, però: i genitori e il fratello di Rhys. Si sarebbero seduti a tavola con i monaci, condividendo il loro semplice pasto. Venti persone in tutto.
Di quei venti, diciannove giacevano a terra, morti.