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Si costrinse ad alzarsi, usando la panca per tirarsi su. Trovò l’emmide a terra accanto a lui, subito prima che la fiamma dell’ultima candela annegasse nella propria cera e si spegnesse, lasciandolo nell’oscurità rischiarata dalla luna, circondato da morti.

Il dolore pulsante alla testa gli rendeva difficile pensare. Si concentrò sul dolore e prese a modellarlo e conformarlo e comprimerlo, pressandolo per ridurlo a una palla che diventava sempre più piccola quanto più lui ci lavorava sopra. Quindi prese la pallina di dolore e la collocò dentro un armadio nella sua mente e chiuse lo sportello. Chiamata Pallina di Creta, era una delle molte tecniche elaborate dai monaci per affrontare il dolore.

«Majere», iniziò la cantilena rituale senza pensare. «Invio i miei pensieri in alto fra le nubi...»

Si interruppe. Le parole non significavano nulla. Erano vuote, non racchiudevano alcun senso. Rhys guardò nel proprio cuore dove il dio era sempre stato e non lo trovò. Ciò che vi era lì era brutto e orrendo. Rhys guardò a lungo dentro di sé. La bruttura rimaneva, una macchia sulla perfezione.

«Così sia», disse tristemente.

Appoggiandosi al bastone, avanzò barcollando verso la porta. Atta lo seguì a passi felpati.

Prima di tutto Rhys doveva accertarsi di che cosa ne fosse stato di Lleu. Riteneva possibile che il fratello fosse appostato da qualche parte nel monastero, a tendergli un’imboscata per offrire l’ultima vittima a Chemosh. La logica imponeva che Rhys perlustrasse le stalle, per vedere se mancassero un cavallo o un carro. Rimase in allerta mentre procedeva, scrutando attentamente in ogni ombra, fermandosi ad ascoltare se vi fosse rumore di passi. Guardava spesso Atta. La cagna era tesa perché percepiva la tensione del padrone ed era guardinga perché lui era guardingo. Non dava però segni che vi fosse qualcosa di strano.

Rhys andò prima alla stalla, dove i monaci tenevano qualche vacca e i cavalli aratori. Il carro guidato dai suoi genitori era ancora lì, parcheggiato all’esterno. Rhys entrò con cautela nella stalla, col bastone alzato, quasi aspettandosi che Lleu l’aggredisse dall’oscurità.

Non vide niente, non udì niente. Atta seppellì il naso nella paglia sparsa sul pavimento, ma questo probabilmente perché di solito non le era consentito di entrare nella stalla ed era affascinata dagli odori. I cavalli da tiro di suo padre erano nei box. Il cavallo su cui era arrivato Lleu no.

Lleu se n’era andato, allora. Tornato a casa. Andato in qualche altra città o villaggio o fattoria isolata. Andato a convertire qualcun altro a Chemosh.

Rhys rimase fermo nella stalla, ad ascoltare il respiro pesante degli animali che sonnecchiavano, il fruscio dei pipistrelli sulle travi, il grido di un gufo. Udiva i rumori della notte e udiva, molto più forti, i rumori che non avrebbe udito mai più: l’urto dell’emmide sul bastone di un confratello, le discussioni animate nella sala del riscaldamento in inverno, il quieto mormorio di voci in preghiera, il suono della campana che aveva scandito la sua giornata e contrassegnato la sua vita con lunghi e netti solchi che solo poche ore prima si estendevano nel futuro finché Majere non avesse condotto la sua anima verso la successiva fase del viaggio.

I solchi adesso erano frastagliati e intersecati, l’uno sull’altro in confusione, e non conducevano da nessuna parte.

Aveva perso tutto. Non gli restava più nulla tranne un dovere. Un dovere verso se stesso e i suoi genitori assassinati e i suoi confratelli. Un dovere verso il mondo che per quindici anni lui aveva evitato e che adesso era arrivato su di lui per vendicarsi.

«Vendicarsi», ripeté a bassa voce, vedendo di nuovo la bruttura dentro di sé.

Trovare Lleu.

Rhys uscì dalla stalla e si diresse verso il monastero. La testa gli martellava. Soffriva di capogiri e di voltastomaco e aveva difficoltà a mettere a fuoco lo sguardo. Non osava distendersi, come bramava. Doveva restare sveglio. Per tenersi sveglio si sarebbe dato da fare, e vi era un lavoro da eseguire.

Un lavoro macabro. Seppellire i morti.

«Ti serve aiuto, fratello», disse una voce alle sue spalle.

Atta balzò subito contro quel suono. Contorcendo il corpo a mezz’aria, atterrò sulle zampe, con il pelo attorno al collo sollevato, i denti scoperti in un ringhio.

Rhys sollevò l’emmide e sferzò l’aria attorno per vedere chi avesse parlato.

Dietro di lui vi era una donna. Per l’aspetto e per l’abito era straordinaria. Aveva i capelli chiari come la spuma del mare e in moto continuo, così come la veste verde che le si increspava sul corpo e le scendeva morbida ai piedi. Era bellissima, calma e serena come il torrente del monastero in piena estate, eppure nei suoi occhi grigio-verdi vi era qualcosa che parlava di inondazioni impetuose e ghiaccio nero.

Era completamente al buio, eppure lui la vedeva chiaramente per via della sua radiosità interiore che sembrava dire: «Io non ho bisogno della luce della luna o delle stelle. Io sono la mia luce, la mia tenebra, a mia scelta».

Rhys si trovava in presenza di una dea e, dai filamenti di conchiglie che lei portava fra i capelli spettinati, sapeva quale.

«Non mi serve aiuto, vi ringrazio, Signora del Mare», disse Rhys, pensando che fosse strano per lui conversare con calma con una dea come se parlasse con una lattaia del villaggio.

Abbassando lo sguardo sui rottami del suo mondo che aveva fra le mani, pensò all’improvviso che non era poi tanto strano.

«Posso seppellire da solo i miei morti.»

«Non parlo di questo», disse irritata Zeboim. «Parlo di Chemosh.»

Rhys allora capì perché lei fosse venuta. Però non sapeva come rispondere.

«Chemosh tiene prigioniero tuo fratello», proseguì la dea. «Una somma sacerdotessa del Dio della Morte, una donna di nome Mina, ha assoggettato tuo fratello a un potente incantesimo.»

«Che genere di incantesimo?» domandò Rhys.

«Io...» Zeboim si interruppe, sembrando trovare difficoltà a proseguire. L’ammissione venne fuori con grande dolore. «Io non lo so», bofonchiò. «Non riesco a scoprirlo. Qualunque cosa stia facendo Chemosh, sta prestando molta attenzione a celarlo agli altri dèi. Tu potresti scoprirlo, monaco, essendo tu mortale.»

«E come potrei io scoprire i segreti di Chemosh meglio degli dèi?» domandò Rhys. Si portò la mano alla testa. Il dolore filtrava fuori dall’armadio.

«Perché tu sei un acaro, una pulce, una zanzara. Uno fra milioni. Tu puoi confonderti tra la folla. Andare di qui, andare di là, fare domande. Il dio non ti noterà mai.»

«Sembra che siate voi ad avere bisogno di me, mia signora», replicò stancamente Rhys. «Non viceversa. Atta, vieni.» Si girò, riprese a camminare.

La dea era lì davanti a lui. «Se vuoi saperlo, monaco, io l’ho persa. Voglio che tu mi aiuti a trovarla.»

Rhys la fissò, perplesso. La testa gli doleva al punto che lui a malapena riusciva a pensare. «Trovarla? Chi?»

«Mina, naturalmente», rispose Zeboim, esasperata. «La sacerdotessa che ha reso schiavo il tuo disgraziato fratello. Te ne ho parlato. Prestami attenzione. Se trovi lei trovi le risposte.»

«Grazie per le informazioni, mia signora», disse Rhys. «E adesso devo seppellire i miei morti.»

Zeboim piegò all’indietro la testa, lo guardò da sotto le lunghe ciglia. Un sorriso le increspò le labbra. «Tu non sai nemmeno chi sia questa Mina, vero, monaco?»

Rhys non rispose. Girando sui talloni, si allontanò da lei.

«E che cosa sai dei morti viventi?» Zeboim lo inseguì, parlando incessantemente. «Di Chemosh? Lui è forte e potente e pericoloso. E tu non hai alcun dio che ti guidi, che ti protegga. Sei da solo. Se tu accettassi di lavorare per me, io so essere molto generosa...»

Rhys si fermò. Atta, accucciandosi, gli strisciò dietro le gambe.

«Che cosa volete, mia signora?»

«La tua fede, il tuo amore, il tuo servizio», disse Zeboim, con voce bassa e dolce. «E sbarazzati del cane», soggiunse aspramente. «A me non piacciono i cani.»

Rhys ebbe un’improvvisa visione di Majere in piedi davanti a lui, che lo guardava con un’espressione addolorata e allo stesso tempo comprensiva. Majere non disse una parola a Rhys. Il cammino doveva percorrerlo lui. La scelta doveva compierla lui.