Rhys si abbassò per toccare la testa ad Atta. «Mi tengo il cane.»
Gli occhi grigi della dea balenarono pericolosamente. «Chi sei tu per contrattare con me, verme di un monaco?»
«A quanto pare voi conoscete la risposta, mia signora», ribatté stancamente Rhys. «Siete stata voi a venire da me. Io vi servirò», soggiunse, vedendola gonfiarsi d’ira, come le nubi nere ribollenti di un temporale estivo, «fintanto che i vostri interessi coincideranno con i miei».
«Coincideranno, te lo assicuro.»
Gli mise le mani sul viso e lo baciò, un bacio lungo e persistente, sulle labbra.
Rhys non si scompose, anche se le labbra gli pizzicavano come acqua salata in una ferita recente. Non rispose al bacio.
Zeboim lo spinse via.
«Tieniti il bastardino, allora», sbottò irritata. «Ora, la prima cosa che devi fare è trovare Mina. Voglio... Dove stai andando, monaco? La strada è da quella parte.»
Rhys aveva ripreso il cammino verso il monastero. «Ve l’ho detto. Devo prima seppellire i miei morti.»
«No!» Zeboim si infiammò. «Non c’è tempo per simili sciocchezze. Devi partire subito per la tua missione!»
Rhys continuò a camminare.
Un fulmine piombò giù dal cielo senza nubi, accecando Rhys, colpendo tanto vicino a lui da sfrigolargli nel sangue e fargli rizzare i capelli e i peli delle braccia. Accanto a lui scoppiò un tuono immane, che lo assordò. Il terreno tremò e Rhys cadde in ginocchio. Pezzi di macerie piovvero attorno a loro. Atta guaiva e gemeva.
Zeboim indicò un enorme cratere.
«Ecco una fossa, monaco. Seppellisci i tuoi morti.»
Gli voltò le spalle con un fruscio di vento e un turbine di pioggia se ne andò.
«Che cosa ho fatto, Atta?» gemette Rhys, tirandosi su da terra.
Stando allo sguardo confuso nei suoi occhi, la cagna sembrava porgli la stessa domanda.
Rhys seppellì i morti nella tomba procurata dalla dea. Lavorò tutta la notte, ricomponendo i corpi con qualche parvenza di pace; trasportandoli, uno per uno, dalla sala da pranzo alla tomba; deponendoli nella terra tenera e umida. Quando tutti furono messi a riposo, Rhys prese il badile e incominciò a riempire di terra la tomba. Il dolore alla testa gli si era alleviato col bacio della dea, una grazia che Rhys non aveva nemmeno notato di avere ricevuto fino a quando lei se n’era andata.
Però era stanco nel corpo e nello spirito. Nessuna grazia avrebbe potuto alleviare tutto questo. Forse la stanchezza spiegava l’impressione che il suo corpo fosse uno di quelli nella tomba. Le zolle cadevano sopra di lui. Veniva sepolto sotto di loro.
La notte era quasi finita quando Rhys gettò nella fossa comune l’ultima badilata di terra. Non recitò preghiere. Aveva rinunciato a Majere e dubitava che Zeboim fosse interessata al riguardo.
Aveva bisogno di dormire.
Rhys si girò e, chiamando Atta, andò nella sua cella, si gettò sul materasso, e dormì.
Si svegliò all’improvviso, non al rintocco della campana, ma alla sua dolorosa assenza.
7
Una volta messi a riposo i morti, Rhys doveva pensare ai vivi. Non poteva iniziare il suo viaggio abbandonando il bestiame, lasciandolo morire di fame o cadere preda di animali selvatici. La cura degli animali adesso era sua responsabilità. Lui e Atta e gli altri cani pastori condussero le pecore e le vacche per cinquanta chilometri fino al villaggio più vicino, percorrendo l’intera distanza sotto un acquazzone torrenziale che faceva delle strade una zuppa di fango. Zeboim evidentemente non era compiaciuta di quel ritardo.
L’ultima volta che Rhys aveva percorso quella strada era stata quindici anni prima, quando si era diretto al monastero. Da allora non c’era più ritornato. In quindici anni non aveva mai lasciato il monastero. Guardò il mondo a cui ritornava e lo trovò bagnato, inzuppato, grigio e non molto cambiato. Gli alberi erano più alti. Le siepi erano più spesse. La strada sembrava più trafficata di prima, a indicare che il villaggio prosperava. Rhys incrociò alcune persone lungo la strada, ma erano piene delle loro preoccupazioni e non risposero al suo saluto, anche se diversi imprecarono contro di lui e il suo gregge perché ostruivano la strada e li bloccavano. Rhys si rammentava perché avesse abbandonato il mondo ed era dispiaciuto di ritornarvi. Dispiaciuto ma deciso.
Gli abitanti del villaggio accettarono con gratitudine il dono del monaco, anche se furono piuttosto allarmati quando Rhys disse loro che lo faceva perché gli altri monaci erano morti di malattia, lasciandolo unico sopravvissuto. Lui assicurò alla popolazione che non vi era pericolo di contagio. Questo e l’aspetto sano e ben nutrito delle vacche da latte e delle pecore fecero molto per persuadere gli abitanti ad accettare tranquillamente questa ricchezza inaspettata.
Rhys indugiò alla periferia del villaggio per osservare gli abitanti condurre le pecore al pascolo nei prati. Aveva dato loro anche i cani pastori. I fratelli e le sorelle di Atta girovagavano dietro il gregge, tenendolo unito e guidandolo su per la collina.
Atta sedeva al fianco di Rhys e guardava con occhi addolorati il branco di cani in cui era nata andarsene e lasciarla lì. Continuava a guardare con aria interrogativa Rhys, aspettando che lui le desse il comando di correre via e unirsi a loro. Rhys le accarezzò gli orecchi e le ordinò tranquillamente: «Stai qui».
Non aveva mai pensato di rinunciare a lei, nemmeno per ordine della dea. Atta lo aveva difeso quando lui non poteva difendersi. Aveva rischiato la propria vita per proteggere la sua. Fra loro vi era un legame che lui non poteva sopportare di spezzare. Aveva bisogno di almeno un compagno in cui riporre la propria fiducia. Fidarsi di Zeboim era fuori discussione.
Rhys ritornò al monastero. Ripulì la sala da pranzo di tutte le tracce orribili dell’assassinio. Fatto questo, ripulì la cucina. Non era sicuro che il veleno venisse lavato via e decise di non correre rischi. Ruppe tutte le stoviglie. Trasportò al torrente tutte le pentole e i bollitori, li appesantì con pietre e li affondò nella parte più profonda del corso d’acqua. Non lasciò alcuna traccia.
Eseguito quest’ultimo terribile compito, si aggirò per l’ultima volta negli edifici che erano orribilmente, dolorosamente silenziosi. I beni più preziosi dei monaci erano i loro libri, e questi Rhys li rinchiuse in un luogo sicuro finché non si fosse trovato un rappresentante del Profeta di Majere che venisse a prenderli. Rhys si sarebbe fermato al primo tempio di Majere per inviare un messaggio al Profeta. Nel frattempo confidava che il dio avrebbe fatto la guardia alle sue cose.
Rhys non aveva beni personali, a parte l’emmide che era un dono del Maestro di sette anni prima. L’emmide era un oggetto sacro, costruito col legno di un albero di agrifoglio considerato sacro a Majere. Poiché Rhys aveva voltato le spalle al dio, non riteneva giusto conservare il dono del dio. Lasciò l’emmide nella biblioteca con i libri, appoggiandolo alla parete. Allontanandosi, gli sembrava di avere lasciato lì un proprio braccio.
Andò a letto, ma il sonno non gli giungeva, nonostante fosse stanchissimo. Non lo ossessionavano i fantasmi dei confratelli assassinati. Erano però tutti nel suo cuore. Vedeva davanti a sé i loro volti, udiva le loro voci. Udiva anche la dea impaziente che picchiava con la mano sul tetto. La pioggia cadde continua tutta la notte.
Rhys aveva programmato di partire prima dell’alba, ma poiché non riusciva a dormire poteva anche mettersi in cammino. In una bisaccia di cuoio infilò pane e carne essiccata e mele per sé e per Atta, si gettò la bisaccia sulle spalle e fischiò per chiamare Atta.
Poiché non arrivava, andò a cercarla, pensando di sapere dove trovarla.
La trovò distesa accanto all’ovile vuoto, con gli occhi tristi, a interrogarsi.
«Lo so come ti senti, ragazza», disse Rhys.
Fischiò di nuovo e Atta si alzò e lo seguì obbediente.