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«Vi ringrazio, maestà.»

«Prego. Forse d’ora in poi avrai di me un’opinione più gentile.»

Mentre la dea incominciava a scomparire, dissolvendosi nelle nebbie mattutine, gli gridò: «Vedo il tuo bastardino che torna indietro lungo la strada. Sembra che tu abbia dimenticato qualcosa. Hai il mio permesso di aspettarlo».

Le nebbie si dissolsero, scaldate dal sole. Atta percorreva la strada verso di lui. Portava in bocca qualcosa. Rhys guardò stupefatto.

Atta aveva il suo bastone.

La cagna gli depose ai piedi l’emmide e alzò lo sguardo verso Rhys, dimenando l’intera parte posteriore del corpo, con la lingua penzoloni per quello che per lei era un sorriso.

Rhys si inginocchiò sulla strada, arruffando ad Atta gli orecchi e la folta pelliccia bianca del collo e del petto.

«Grazie, Atta», disse e soggiunse a bassa voce: «Grazie, Majere».

L’emmide gli dava una bella sensazione in mano, la sensazione di una cosa giusta e opportuna. Majere gliel’aveva restituito: un chiaro messaggio per dire che, anche se non avrebbe ricevuto ulteriori grazie dal Dio Mantide, per lo meno Rhys poteva contare sul perdono e sulla comprensione di Majere.

Rhys si alzò in piedi, con l’emmide in mano e la cagna al fianco. Una giornata di cammino li avrebbe condotti a quella città.

La notte li avrebbe presentati al dono di Zeboim.

8

Il cimitero era antico, risalente alla fondazione della città. Separato dal centro abitato, in un boschetto, il cimitero era ben curato, le lapidi erano in buone condizioni, le erbacce tagliate. Su alcune tombe erano stati piantati dei fiori che erano in boccio, e la loro fragranza profumava l’oscurità. Alcune tombe erano decorate con oggetti cari ai defunti. Su una tomba piccola era distesa una bambola di stracci.

Rhys si trovava nel boschetto, tenendosi in ombra, in attesa di osservare questo misterioso personaggio prima di parlargli. Atta sonnecchiava ai suoi piedi, rimanendo però vigile.

La notte si fece più profonda, approssimandosi al suo punto centrale, il passaggio da un giorno al successivo. I pipistrelli sfrecciavano in aria, banchettando con gli insetti. Rhys rivolse loro un sentito ringraziamento, poiché gli insetti stavano mangiando lui. Gridò un gufo, per far sapere che questo era territorio suo. In lontananza ne rispose un altro. Il cimitero era silenzioso, vuoto, a parte i morti immersi nel sonno.

Atta si alzò all’improvviso, con gli orecchi tesi, il corpo tremante, tesa e vigile. Rhys la toccò leggermente sulla testa e Atta rimase in silenzio al suo fianco.

Una persona entrò nel cimitero, vagando fra le lapidi, talvolta toccandole con mano, dando loro una pacca amichevole.

Rhys rimase sconcertato. Non sapeva che cosa aspettarsi: un chierico di Zeboim; forse un negromante o perfino un mago dalle Vesti Nere, seguace del dio nero Nuitari. Nelle sue fantasie più sfrenate Rhys non aveva previsto questo.

Un kender.

Il primo pensiero di Rhys fu che questo fosse il concetto di scherzo per Zeboim, ma la dea non gli aveva dato l’impressione di una incline a burle spensierate, visto soprattutto che era tanto impegnata nella ricerca di questa Mina. Rhys si domandò se il kender fosse davvero la persona che lui doveva incontrare o se il suo arrivo fosse una coincidenza. Rhys non diede credito a quest’ultima ipotesi dopo un attimo di riflessione. La gente di solito non va nei cimiteri in piena notte. Il kender era arrivato all’ora stabilita, e da come camminava e parlava doveva essere un visitatore frequente.

«Ciao, Simon Plowman», disse il kender, accovacciandosi comodamente accanto a una tomba. «Come stai oggi? Bene? Ti farà piacere sapere che il frumento è alto ormai quindici centimetri. Invece quel melo di cui ti preoccupavi non ha un bell’aspetto.»

Il kender si interruppe, come attendendo una risposta.

Rhys osservava, perplesso.

Il kender emise un sospiro malinconico e si alzò in piedi. Passò alla tomba successiva, quella con la bambola di stracci, e vi si sedette accanto.

«Ciao, Blossom. Vuoi giocare a pulce? Meglio una partita a khas? Ho con me il tabellone e tutti i pezzi. Be’, quasi tutti. Mi sembra di avere smarrito una torre.»

Il kender diede un colpetto a una sacca che portava su una spalla e guardò con attesa speranzosa la tomba.

«Blossom?» chiamò di nuovo. «Sei qui?»

Sospirò addolorato e scrollò il capo.

«Non serve», disse, parlando fra sé. «Nessuno parla con me. Se ne sono andati tutti.»

Quel piccoletto sembrava davvero tanto triste e affranto che Rhys fu spinto a commiserarlo. Se era pazzia, certamente aveva assunto una strana forma. Il kender però non sembrava pazzo. Appariva razionale e, pur sembrando piuttosto magro e smunto, come se non avesse abbastanza da mangiare, pareva discretamente in salute.

Portava i capelli annodati in alto, nella tipica acconciatura dei kender. La coda gli scendeva disordinatamente sulla schiena. Potava abiti di colori più smorzati del consueto per un kender, avendo addosso una maglia scura e pantaloni alla zuava scuri. (In questo Rhys si sbagliava. Nel buio gli parvero neri. In seguito avrebbe scoperto, alla luce del giorno, che erano di una sfumatura scura ma accesa di viola.)

Rhys adesso era curioso. Avanzò verso il cimitero, calpestando apposta ramoscelli e strascicando i piedi tra le foglie affinché il kender lo udisse arrivare.

Arricciando il naso per l’insolito odore di kender, Atta girava attorno a Rhys.

«Salve...» cominciò Rhys.

Con suo stupore, il kender balzò in piedi e si ritirò dietro una lapide.

«Vattene via», disse il kender. «Noi non vogliamo qui quelli della tua specie.»

«Della mia specie?» ripeté Rhys, fermandosi. «Che vuoi dire, della mia specie?» Si domandò se il kender avesse qualcosa contro i monaci.

«I vivi», ribatté il kender. Agitò la mano come se stesse scacciando via dei polli. «Qui siamo tutti morti. I vivi non devono stare qui. Vattene via.»

«Ma tu sei vivo», disse dolcemente Rhys.

«Io sono diverso», rispose il kender. «E poi, no, non sono afflitto», soggiunse, offeso, «per cui togliti dalla faccia quell’aria di commiserazione».

Rhys si rammentò di avere sentito dire qualcosa sui kender afflitti, ma non ricordava che cosa e lasciò perdere.

«Non ti sto commiserando. Sono curioso», confessò, facendosi strada fra le lapidi. «Non intendo mancare di rispetto agli onorati defunti, e nemmeno intendo far loro del male. Ti ho sentito parlare con loro...»

«Non sono neanche pazzo», affermò il kender da dietro la lapide, «se è questo che pensi».

«Niente affatto», rispose amabilmente Rhys.

Si sedette comodo accanto alla lapide di Simon Plowman. Aprendo la bisaccia, Rhys ne estrasse una fettina di carne essiccata. Ne strappò una parte per Atta e prese a masticarne un pezzo anche lui. La carne era fortemente speziata e l’odore pungente pervase la notte. Il kender arricciò il naso e mise in movimento le labbra.

«Strano posto per un picnic», osservò il kender.

«Ne vuoi un po’?» domandò Rhys porgendo una lunga fetta di carne.

Il kender esitò. Scrutò con circospezione Rhys. «Non hai paura a lasciarmi avvicinare? Potrei rubarti qualcosa.»

«Non ho niente da rubare», rispose Rhys con un sorriso. Continuò a porgere la carne.

«E il cane?» domandò il kender. «Morde?»

«Atta è una femmina», rispose Rhys. «E fa del male solo a chi fa del male a lei o ai suoi protetti.»

Porse ancora la carne.

Lentamente, con cautela, tenendo lo sguardo diffidente sul cane, il kender uscì furtivo da dietro la lapide. Guizzò verso la carne, la strappò di mano a Rhys e la divorò famelico.

«Grazie», mormorò, con la bocca piena.

«Ne vuoi ancora?» domandò Rhys.

«Io... sì.» Il kender sedette con un tonfo accanto a Rhys e accattò un altro pezzo di carne e un tozzo di pane.