Il «piano di esistenza più elevato» sembrava essere una destinazione molto richiesta, poiché Nightshade aveva difficoltà a comunicare con i morti, o per lo meno così affermava lui. Quelli che riusciva a trovare non sapevano dirgli niente di Chemosh. Rhys era stato scettico fin da principio riguardo alle affermazioni del kender, e il suo scetticismo aumentava. Decise di seguire il kender una notte e vedere di persona che cosa accadesse.
Nightshade era emozionato quella sera, poiché aveva sentito parlare di un campo di battaglia nelle vicinanze. I campi di battaglia erano promettenti, spiegò, perché i morti talvolta venivano abbandonati sul campo, i loro corpi restavano insepolti e imputridivano al sole o venivano lacerati dagli avvoltoi.
«Alcuni spiriti la prendono con filosofia, lasciano perdere e se ne vanno», spiegò Nightshade. «Ma altri ne fanno una questione personale. Rimangono lì, in attesa di sfogare la loro collera sui vivi. Dovrei trovare qualcuno impaziente di parlare.»
«Non sarà pericoloso?» domandò Rhys.
«Be’, sì», ammise il kender. «Alcuni morti assumono un atteggiamento davvero malvagio e si scagliano sulla prima persona che incontrano. In qualche occasione io me la sono cavata per un pelo.»
«Che cosa fai se sei attaccato? Come ti difendi? Tu non porti armi.»
«Agli spiriti non piace la vista dell’acciaio», rispose Nightshade. «O forse è l’odore del ferro. Non l’ho mai capito bene. Comunque, se vengo attaccato, me la do a gambe. Sono più veloce di qualunque vecchio scheletro crepitante.»
Quando si fece buio, Nightshade partì per il campo di battaglia. Rhys lasciò al kender un lungo margine di vantaggio, quindi con Atta si incamminò sulle sue tracce.
La notte era serena. Solinari era calante e Lunitari piena e splendente, conferendo alle ombre una sfumatura rossastra. L’aria serale era calma e profumava di rose selvatiche. Le creature dei boschi erano impegnate nelle loro attività, e i loro fruscii e stridii e ululati provocavano in Atta una serie continua di preoccupazioni.
In quello che Rhys ormai considerava il suo passato, gli sarebbe piaciuto passeggiare nella notte profumata. In quella vita il suo spirito sarebbe stato tranquillo, la sua anima serena. Non riteneva di essere cieco verso i mali del mondo, verso le brutture della vita. Capiva che una cosa era necessaria per equilibrare l’altra. O piuttosto pensava di capirlo. Adesso era come se la mano di suo fratello avesse scostato una tenda per mostrargli un male la cui esistenza lui non si era mai immaginato. In un certo senso, ammise Rhys, lui era stato cieco perché aveva visto solo ciò che voleva vedere. Non avrebbe mai consentito che accadesse di nuovo.
Aveva molto a cui pensare durante il cammino. Riteneva di essere molto vicino a raggiungere il fratello. Lleu era stato in quel villaggio fino a due giorni prima. Aveva preso la strada per Haven, una strada che a causa di briganti e goblin adesso non era sicura da percorrere. Coloro che osavano avventurarvisi viaggiavano in gruppi numerosi per proteggersi.
Rhys aveva ben poco da temere dai banditi. «Povero come un monaco» era un’espressione ben nota. Bastava un’occhiata alla veste di un monaco (perfino di colore strano) e i ladri si allontanavano disgustati.
Un cupo brontolio da parte di Atta indusse Rhys ad abbandonare i propri pensieri e a rivolgere l’attenzione al compito che l’attendeva. Avevano raggiunto il campo di battaglia e lui vedeva chiaramente Nightshade, con la luna rossa che gli sorrideva vivida, come se Lunitari avesse trovato il tutto piuttosto buffo.
Rhys si scelse un punto nell’ombra sotto un albero che, stando ai rami scheggiati, era rimasto coinvolto nel combattimento. Si sentì rimordere la coscienza poiché spiava il kender, ma la questione era troppo importante, troppo urgente per essere lasciata al caso.
«Per lo meno ho concesso a Nightshade il beneficio del dubbio», disse Rhys ad Atta, mentre osservava il kender girovagare speranzoso per il campo di battaglia. «Chiunque altro, all’udire una simile storia, l’avrebbe portato subito alle celle dei matti.»
Il campo di battaglia era un ampio tratto di campo aperto, lungo e largo, di qualche ettaro. La battaglia era stata combattuta appena qualche anno prima e, anche se il campo adesso era ricoperto di erba ed erbacce, si vedevano ancora tracce del combattimento.
Le eventuali armi o armature intatte erano state saccheggiate dai vincitori o dagli abitanti del villaggio. Rimanevano lance spezzate, pezzi arrugginiti di armatura, uno stivale logoro, un guanto di ferro lacerato, frecce scheggiate. Rhys non aveva idea di chi avesse combattuto contro chi in quella battaglia. E nemmeno gli importava.
Nightshade girovagò qua e là. A un certo punto si fermò per raccogliere qualcosa da terra. Dopo averlo esaminato attentamente, se lo lasciò cadere nella sacca.
Si guardò attorno, sospirò malinconicamente, quindi urlò, con tono amichevole: «Ehi! C’è qualcuno in casa?».
Non rispose nessuno. Nightshade continuò a vagare. La notte era calma, pacifica, e Rhys incominciò a sentirsi vincere dal sonno. Scrollò il capo per togliersi l’annebbiamento, si strofinò gli occhi e bevve un po’ d’acqua dalla borraccia. Atta si tese. Rhys sentì il corpo della cagna irrigidirsi. Gli orecchi le si rizzarono.
«Che cosa...» cominciò a dire, poi la voce gli si smorzò in gola.
Nightshade si era chinato per raccogliere un elmo ammaccato e malconcio. Compiaciuto di questa scoperta, il kender si mise l’elmo in testa. L’elmo era fin troppo grande, ma ciò non infastidiva Nightshade. Si diede un colpo col pugno sulla sommità dell’elmo e riuscì a tirare su la visiera, che aveva da qualche parte attorno al mento.
Stava armeggiando con la visiera ormai arrugginita, e non vide l’apparizione spettrale che saliva dal terreno quasi direttamente davanti a lui. Rhys la vide chiaramente e anche così avrebbe potuto dubitare dei propri sensi, ma dallo sguardo fisso di Atta e dai suoi muscoli rigidi, tesi sotto la mano di lui, capiva che anche la cagna la vedeva.
Lo spettro aveva all’incirca l’altezza e la corporatura di un uomo. Indossava un’armatura; niente di sofisticato come quella di un cavaliere: soltanto alcuni pezzi recuperati e rabberciati alla meglio. Non portava elmo e sulla testa aveva una ferita orribile, un taglio che gli aveva squarciato il cranio. Aveva i lineamenti contorti in una smorfia. Il fantasma allungò una mano spettrale verso il kender, che era ancora allegramente nascosto nell’elmo, senza la più pallida idea dell’orrore che si trovava davanti a lui.
Rhys cercò di gridare per avvertirlo. Aveva la gola e la bocca tanto asciutte che non riuscì a emettere alcun suono. Avrebbe potuto mandare avanti Atta, ma la cagna tremava, terrorizzata.
«Oh, ragazzi, si è fatto freddo tutto a un tratto», osservò Nightshade, con la voce che riecheggiava dentro l’elmo.
Nel frattempo riuscì a liberare la visiera, che si aprì di scatto. «Oh, salve!» disse allo spettro, la cui mano era a pochi centimetri dal viso del kender. «Mi dispiace. Non sapevo che tu fossi qui. Come va?»
Al suono della voce del kender lo spettro lasciò cadere la mano. Rimase a librarsi incerto davanti a Nightshade, come cercando di decidersi a fare qualcosa.
Sgomento, Rhys ascoltava e osservava e cercava di trarre un senso da ciò che stava accadendo. Niente del suo addestramento, delle sue preghiere o della sua meditazione l’avevano preparato a questo spettacolo. Accarezzò Atta, calmandola e allo stesso tempo rassicurando se stesso. Era bello toccare qualcosa di caldo e di vivo.
Nightshade si tirò via l’elmo e lo lasciò cadere a terra. «Mi dispiace. Era tuo?» Vide che allo spettro mancava circa metà del cranio. «Oh, immagino di no. Probabilmente ti avrebbe fatto comodo. Allora le cose non sono andate tanto bene per te. Ti andrebbe di raccontarmelo?»
Sembrava che lo spettro stesse parlando, ma Rhys non udiva la voce. Vedeva le mani spettrali compiere gesti collerici. La testa del fantasma si girava per guardare in lontananza.