«Custodisci bene quel pezzo del khas», lo ammonì Chemosh.
«Non lo perderò di vista», ribatté Krell reprimendo il riso. «Su questo potete contarci, mio signore.»
Krell se ne andò a passi pesanti, continuando a ridere fra sé.
«Mina», disse Chemosh, contrariato, «mi stavi spiando?»
«Non spiavo, mio signore», rispose lei uscendo dall’oscurità. «Ero preoccupata. Non mi fido di quel demonio. Ha tradito già una volta il suo signore. Lo farà di nuovo.»
«Ti assicuro che io sono in grado di sistemarlo, Mina», ribatté freddamente Chemosh.
«Lo so, mio signore. Chiedo scusa.» Mina gli si avvicinò. Lo prese fra le braccia, si strinse a lui. Gli poggiò la testa sul petto.
Chemosh sentiva il calore di lei, percepiva il profumo dei suoi capelli che gli sfioravano la pelle.
Da morta darebbe meno fastidio che da viva.
Era, dopo tutto, una cosa da prendere in considerazione.
«Perché ti preoccupi di Zeboim, mio signore?» domandò Mina, ignara dei pensieri di lui. «Lo so che c’è questo monaco che ficca il naso dappertutto, ma ti basterebbe darmi il permesso di sistemarlo...»
«Il monaco è una scocciatura», taglio corto Chemosh. «Niente di più. L’ho tirato dentro solo per far sapere alla dea che so che cosa sta combinando. E anche per distrarla dal mio vero scopo.»
«E qual è, mio signore?»
«Andremo alla ricerca di un tesoro sepolto, Mina. Il tesoro più ricco mai conosciuto da uomini o dèi.»
Mina lo fissò, perplessa. «Che bisogno avete di un tesoro? La ricchezza per voi è come polvere.»
«Il tesoro che cerco non si compone di cose insignificanti quali monete d’acciaio o corone d’oro, collane d’argento o gingilli di smeraldi», ribatté Chemosh, con scherno. «Il tesoro che cerco io è fatto di materiale molto più prezioso. È fatto di... me stesso.»
Mina lo guardò, lo fissò a lungo negli occhi. «Credo di capire, mio signore. Il tesoro è...»
Lui le mise il dito sulle labbra. «Neanche una parola, Mina. Non ancora. Non sappiamo chi possa essere in ascolto.»
«Posso chiedere dove si trovi questo tesoro, mio signore?»
Lui la prese fra le braccia, la strinse nel suo abbraccio e disse a bassa voce: «Nel Mare di Sangue. È lì che andremo, io e te, quando certi occhi indiscreti saranno chiusi e certi orecchi tesi saranno otturati».
2
Lord Ausric Krell detestava il Bastione della Tempesta. Aveva esultato nel venire liberato da quel luogo, aveva giurato di non metterci piede mai più, se non per demolirlo, eppure quando si trovò di nuovo sulle pietre del cortile spazzato dal vento e dalle onde provò un vero piacere. Se n’era andato da prigioniero, sgattaiolando fuori con ignominia, e adesso ne era signore e padrone.
Rise forte all’udire le fiacche ondate che andavano a frangersi sugli scogli. Sporgendosi oltre il ciglio del dirupo fece un gesto volgare al mare, urlò un’oscenità. Rise di nuovo e riattraversò a passi lunghi e rapidi il cortile, diretto verso la Torre del Giglio e la biblioteca. Zeboim si sarebbe presto resa conto del suo ritorno e lui doveva avere tutto pronto.
Zeboim si trovava nel Mare di Sangue, ad aiutare suo padre, Sargonnas, quando udì l’imprecazione di Krell. I minotauri stavano lanciando una grandiosa forza di spedizione per consolidare il loro dominio su Silvanesti. Una flotta di navi – navi da guerra, navi da carico, trasporto di truppe e navi piene di immigrati – stavano partendo dalle isole dei minotauri, facendo vela per Ansalon.
Questo era il momento di trionfo supremo per Sargonnas e lui non voleva che niente lo guastasse. Chiese alla figlia mari calmi e venti favorevoli, e Zeboim, non avendo niente di meglio da fare, acconsentì ad assecondare la sua richiesta. In cambio, i minotauri le offrirono doni sontuosi e organizzarono giochi di combattimento in suo onore nel loro Circo.
Fu versato del sangue in onore di Zeboim. Braccialetti d’oro e orecchini d’argento ricoprirono i suoi altari. Come poteva una dea rifiutare?
Le vele si gonfiarono. I venti ricoprirono il mare azzurro di schiuma bianca che ribolliva e si frangeva sotto le prue incalzanti dei vascelli dei minotauri. I marinai cantavano e danzavano sui ponti che rollavano. Zeboim danzava con loro sull’acqua spumeggiante.
Poi giunse la voce di Krell a rimbombare in tutto il mondo.
Krell maledisse il nome di Zeboim. Maledisse il suo vento e la sua acqua. Imprecò contro di lei, poi rise.
Volgendo nella sua direzione gli occhi dalla vista acuta, Zeboim vide Krell in piedi su un dirupo in cima al Bastione della Tempesta.
La dea non si soffermò a riflettere. Non si domandò come lui fosse arrivato lì né perché si sentisse tanto audace da sfidarla. Rapida come acque alluvionali impetuose precipitanti dalle montagne, Zeboim attraversò i cieli e si riversò sul Bastione della Tempesta con un torrente di furia che sferzò i mari e li fece sollevare e schiantarsi sui dirupi.
Zeboim percepì la schifosa presenza di Krell nella Torre del Giglio. Percosse la pesante porta che conduceva alla Torre, la mandò in frantumi, e con un ampio gesto della mano scagliò i detriti verso i quattro punti cardinali. Irruppe nei freddi corridoi di pietra, che vennero così inondati di acqua marina, fino a trovare Krell seduto a proprio agio su una sedia nella biblioteca.
La dea era sempre troppo impaziente per soffermarsi a osservare i dettagli, che per lei erano comunque insignificanti. Zeboim non vide nient’altro che il cavaliere della morte. All’improvviso rimase pericolosamente calma, come i mari prima dell’uragano, quando, dicono i marinai, il vento «mangia» le onde.
«Allora, Krell», lo apostrofò Zeboim, con voce bassa e minacciosa. «Chemosh finalmente si è stancato di te e ti ha ributtato in questo mucchio di rifiuti.»
«Veramente, adesso, mia signora», ribatté Krell, appoggiandosi all’indietro comodamente sulla sedia e incrociando le gambe, «non dovreste chiamare mucchio di rifiuti questa bella fortezza che voi stessa avete costruito per il vostro amato figlio, il defunto e compianto Lord Ariakan».
Zeboim attraversò la stanza con un balzo. Un fulmine balenò nel cielo, scoppiò un tuono. L’aria sfrigolò per la collera della dea. Zeboim incombeva su Krell, tuonando e sprizzando scintille.
«Come osi insudiciare il suo nome menzionandolo! L’ultima volta che l’hai fatto ti ho tagliato la lingua col mio coltello e ti ho guardato soffocare nel tuo stesso sangue. Ti restituirò la lingua solo per avere il piacere di tagliartela...»
Sollevò la mano.
«Attenzione, mia signora», la redarguì Krell imperturbabile. «Non fate niente che possa rovesciare il tabellone del khas. Io sono nel bel mezzo di una partita.»
«Vada nell’Abisso la tua partita!» Zeboim abbassò le mani per afferrare il tabellone e rovesciarlo, sparpagliare i pezzi, calpestarli, polverizzarli. «E vai nell’Abisso anche tu, Ausric Krell! Questa volta ti annienterò completamente e definitivamente!»
«Io non lo farei, mia signora», suggerì freddamente Krell. «Non toccherei quel tabellone per il khas se fossi in voi. Se lo toccate, ve ne pentirete.»
Il tono della sua voce, di scherno e compiacimento, e uno scaltro bagliore giallo al centro della fiamma rossa degli occhi fecero esitare la dea. Non capiva che cosa stesse succedendo, e un po’ tardivamente si pose le domande che si sarebbe dovuta porre prima di arrivare al Bastione della Tempesta.
Perché Krell era ritornato volontariamente nella sua prigione? Zeboim aveva immaginato che Chemosh avesse abbandonato il cavaliere della morte, rinchiudendolo di nuovo in questa fortezza. Adesso che vi prestava attenzione, percepì la presenza del Signore della Morte. Chemosh teneva la mano su Krell per proteggerlo, così come Krell teneva la mano sul tabellone del khas per proteggerlo. Krell agiva con la benedizione di Chemosh, una benedizione che rendeva Krell abbastanza ardito da imprecare contro di lei, da sfidarla.