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Perché? Qual era il gioco di Chemosh? Zeboim non pensava fosse il khas. Sforzandosi di riacquistare almeno una parvenza di compostezza, si piantò le unghie nella palma delle mani e si rimangiò le parole che avrebbero ridotto Ausric Krell a un mucchio sfrigolante di metallo fuso.

«Di che parli, Krell?» domandò Zeboim. «Perché dovrebbe importarmi qualcosa di questo tabellone del khas o di qualunque altro tabellone del khas se è per questo?»

Parlò con disdegno ma, pensando che Krell non stesse guardando, diede di nascosto un’occhiata rapida e inquieta al tabellone. Sembrava piuttosto normale come un tabellone per il khas. A Zeboim non era mai piaciuto il khas. Non le piaceva nessun gioco, se è per questo. I giochi volevano dire competizione, e competizione voleva dire che qualcuno vinceva e qualcuno perdeva. L’idea che lei potesse perdere era talmente ridicola che non valeva nemmeno la pena di essere presa in considerazione.

«Questo è un tabellone per il khas assai prezioso, mia signora. Vostro figlio, il mio signore Ariakan, l’aveva fatto costruire appositamente per sé. Perché non vi sedete a terminare la partita con me?» la invitò Krell. Indicò con un gesto il tabellone. «Prendete i pezzi neri. Tocca a voi muovere.»

Zeboim scrollò il capo e piovve spuma di mare in tutta la stanza. «Non ho alcuna intenzione...»

«Tocca a voi, mia signora», ripeté Ausric Krell, e gli occhi rossi tremolarono di divertimento.

La presenza di Chemosh era intensissima. Zeboim fu tentata di chiamarlo, poi decise di non dargli questa soddisfazione. Non le piaceva che Krell continuasse a parlare di suo figlio. In lei si destò la paura, una paura irrazionale.

Chemosh era sempre stato un dio ombroso, il meno noto a lei fra tutti gli dèi; si teneva sulle sue, non faceva amicizia, non stringeva alleanze. Dopo il ritorno degli dèi nel mondo, Chemosh si era fatto ancora più riservato, ritirandosi verso ombre più profonde e tenebrose. L’ardore della sua ambizione si percepiva, però, in tutto il cielo, sputava fuori vapore, provocava piccole scosse, come la lava fusa che ribolle nelle profondità oscure di una montagna.

«Non so niente di questo gioco», disse sdegnosamente Zeboim. «Non so quali pezzi muovere e veramente non mi interessa.»

«Posso suggerire una mossa, mia signora?»

Krell faceva l’educato, ma la dea sentì gorgogliare una risata nell’armatura vuota. Le prudevano le mani per afferrare quell’armatura e lacerarla. Si strinse una mano con l’altra per trattenersi.

Krell si chinò sul tabellone. Indicò col grosso dito guantato: «Vedete quel cavaliere sul drago azzurro? Quello vicino alla figura della regina? Io prenderò quel pezzo con la torre se non fate una mossa per impedirmelo.»

La collocazione dei pezzi sugli esagoni del tabellone non le diceva niente. I pezzi erano sparpagliati qua e là, alcuni su esagoni di un lato del tabellone e altri su esagoni dell’altro lato; alcuni erano rivolti verso i loro sovrani e altri erano girati dall’altra parte. Il cavaliere indicato da Krell sembrava essere nel bel mezzo di qualche sorta di azione, poiché lui e la regina di cui era al servizio erano circondati da altri pezzi. Come le risultava più naturale, Zeboim si concentrò sulla regina.

Studiò attentamente il pezzo e all’improvviso le si spalancarono gli occhi. La regina era lei, in piedi su una conchiglia, col vestito verde mare che le schiumava attorno alle caviglie, e il volto intagliato con dettagli delicati.

A Zeboim si intenerì il cuore. Suo figlio aveva fatto evidentemente intagliare questo tabellone come tributo a lei. Strinse affettuosamente il pezzo, riluttante a rimetterlo giù.

«Adesso che avete preso in mano il pezzo, mia signora, dovete muoverlo», le suggerì Krell. «Potreste collocarlo su questo esagono qui. In questo modo io non potrò minacciare vostro figlio.»

Zeboim ancora non capiva bene che cosa stesse succedendo. «Andrò avanti col tuo stupido gioco ancora per poco, Krell», lo avvertì.

Mentre la dea fece per collocare il pezzo dove aveva indicato lui, le parole di Krell all’improvviso la colpirono.

In questo modo io non potrò minacciare vostro figlio.

Zeboim lasciò cadere la regina, che rotolò sul tabellone del khas, rovesciando un paio di pedine, e finalmente si fermò ai piedi del re nero. La dea afferrò il cavaliere sul drago azzurro. Vide immediatamente la somiglianza con Ariakan.

Calarono i venti di tempesta. Le nubi temporalesche si addensarono. Le acque del mare turbinarono, lambendo minacciosamente le rocce del Bastione della Tempesta. La dea rigirò nella mano il pezzo del khas raffigurante suo figlio.

«Una bella somiglianza», osservò con diffidenza.

«Davvero», convenne Krell in tono semiserio. «Penso che lo scultore abbia colto perfettamente Lord Ariakan. Il volto è così espressivo, specialmente gli occhi. Si può guardarvi dentro e vedergli l’anima...»

Le nubi della confusione di Zeboim si diradarono, frantumate da un freddo vento di terrore. Lei aveva amato Ariakan, l’aveva adorato, aveva stravisto per lui. La sua morte aveva lasciato un vuoto che tutto il creato non avrebbe potuto colmare. Guardò gli occhi del pezzo del khas e gli occhi del pezzo guardarono lei, adirati, furiosi, inermi...

Zeboim emise un grido sordo. «Chemosh!» Guardò freneticamente in giro per la stanza. «Chemosh!» ripeté, alzando la voce fino a un ululato di furia e paura e sgomento. «Libera mio figlio! Liberalo! Subito! In questo momento! Altrimenti io...»

«Voi che cosa?» disse Krell.

Allungando la mano, Krell strappò via dalle dita tremanti di Zeboim la figura di Lord Ariakan. «Minacciate ciò che volete, mia signora. Date in escandescenze ed esplodete. Non potete farci niente.»

Ricollocò il pezzo sul tabellone del khas. La figura della dea giaceva ai piedi del re nero, e adesso Zeboim vide che il re era realizzato con le fattezze del Signore della Morte. Zeboim fissò la figura, con la gola che le si serrava, al punto che quasi non riusciva a parlare.

«Che cosa vuole da me Chemosh?» domandò con un tono basso e strozzato.

«Vuole i mari calmi. I venti fermi. Le onde piatte. Vuole che un certo monaco smetta di infastidire. Oltre a questo, qualunque cosa accada in qualsiasi parte del mondo, o al di sotto di esso, voi non intraprenderete alcuna azione. Insomma non farete nulla, perché non vi è nulla che possiate fare, senza mettere in pericolo il vostro caro figlio.»

«Che cosa diamine sta tramando Chemosh?» chiese Zeboim in tono soffocato.

Krell alzò le spalle. Raccogliendo la figura della regina, la tolse dal tabellone e la depose da parte, lontano dalla battaglia. Quindi raccolse la figura del cavaliere. Tenne in mano il cavaliere, stringendogli la testa fra pollice e indice.

«Siete d’accordo, mia signora?»

Zeboim rivolse alla figura un’occhiata tormentata. «Chemosh deve promettere di liberare mio figlio.»

«Oh, sì», rispose Krell. «Lo promette. Il giorno del suo trionfo, re Chemosh libererà l’anima di Lord Ariakan. Avete la sua parola.»

«Re Chemosh!» Zeboim emise una risata amara. «Non succederà mai!»

«Per amore di vostro figlio, mia signora, dovreste pregare che succeda. Accettate?» Avvolse nel pugno guantato il pezzo del khas, nascondendolo alla vista di lei.

«Accetto!» gridò Zeboim, incapace di pensare ad altro che agli occhi tormentati del figlio. «Accetto.»

«Bene», disse Krell. Rimise il cavaliere sul tabellone, lo collocò davanti al re nero. «E adesso io voglio ritornare alla mia partita. Avete il permesso di andare, mia signora.»

La furia pulsava alle tempie di Zeboim, le palpitava in seno, fu sul punto di soffocarla. Su tutto il mondo i cieli si oscurarono. Mari e fiumi presero a sollevarsi. Le navi beccheggiarono precariamente sulle acque turbolente. La gente urlò che l’ira di Zeboim si sarebbe presto scatenata, apportando uragani, tifoni, trombe d’aria, inondazioni, morte e distruzione. Tutti alzarono lo sguardo verso le nubi ondeggianti e ribollenti e attesero con terrore che la violenza della dea si scatenasse su di loro.