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«Era ora», disse Zeboim, tirandosi su a sedere sul letto.

Si tirò indietro il cappuccio. Gli occhi verde mare luccicarono intensamente.

Rhys spintonò Nightshade, facendolo entrare nella cella, e lo seguì.

Gerard chiuse la porta della cella e inserì la chiave nella serratura. Non la girò ma lasciò la chiave dov’era. Si fermò un attimo ad ascoltare. I tre tenevano bassa la voce, e comunque lui aveva promesso di concedere loro riservatezza.

Scrollando il capo, Gerard se ne andò a passare qualche momento col carceriere.

«Quanto tempo concedete loro, sceriffo?» domandò il carceriere.

«Il solito. Cinque minuti.»

Sulla scrivania vi era una piccola clessidra. Il carceriere la rovesciò, affascinando grandemente i kender, che spuntarono con teste, braccia, mani e piedi fra le sbarre per avere una visuale migliore del procedimento, continuando a tempestare Gerard di domande, la principale delle quali era quanti granelli di sabbia vi fossero nella clessidra, e offrendosi, poiché lui non lo sapeva, di contarli rapidamente.

Gerard ascoltò le lamentele del carceriere riguardo ai kender, lamentele che lui esprimeva quotidianamente, e osservò la sabbia scendere nella clessidra, rimanendo in ascolto di eventuali rumori di trambusto dal fondo del corridoio.

Era tutto silenzioso, però. Quando dal collo sottile della clessidra cadde l’ultimo granello, Gerard urlò: «È ora», e avanzò a passi pesanti lungo il corridoio.

Girò la chiave nella porta e la spinse per aprirla. Si fermò, guardò.

La donna pazza era distesa sul letto, col cappuccio sulla testa, il viso verso la parete. Con lei non c’era nessuno.

Nessun monaco. Nessun kender.

La porta della cella era stata chiusa a chiave. Lui aveva dovuto girare la chiave per entrare. C’era un’unica via d’uscita dal corridoio ed era vicino a lui, e nessuno gli era passato accanto.

«Ehi, voi!» disse alla donna pazza, scrollandola per le spalle. «Dove sono andati?»

La donna fece con la mano un gesto lieve, come per scacciare un insetto. Gerard volò fuori della cella finendo nel corridoio, dove si schiantò contro la parete.

«Non toccarmi, mortale!» disse la donna. «Non toccarmi mai.»

La porta della cella si chiuse di schianto.

Gerard si tirò su. Aveva sbattuto la testa contro il muro, e la mattina dopo sulla spalla avrebbe avuto un livido gigantesco. Con una smorfia di dolore, rimase a fissare la porta della cella. Strofinandosi la spalla, si girò e percorse a passi pesanti il corridoio.

«Lascia liberi i kender», gridò.

I kender si misero a gridare e a strillare. Le loro urla acute avrebbero potuto incrinare la pietra massiccia. Gerard sussultò a quel frastuono.

«Fai come ti dico», ordinò al carceriere. «E alla svelta. Non preoccuparti, Smythe. Io ho un cane meraviglioso che mi aiuterà a tenerli in riga. Il cane ha bisogno di fare qualcosa. Sente la mancanza del suo padrone.»

Il carceriere aprì la porta della cella e i kender sciamarono gioiosamente verso la luce vivida della libertà. Gerard diede un’occhiata alla cella in fondo al corridoio.

«Credo che sentirà la mancanza del suo padrone per molto, ma molto tempo.»

6

Il Vortice del Mare di Sangue di Istar. Un tempo i marinai ne parlavano sottovoce, se ne parlavano. Un tempo il Vortice era una spirale di distruzione, fauci roteanti di morte rossa che afferravano tra i denti le navi e le inghiottivano intere. Una volta fuori da quelle fauci si poteva udire il tuono delle voci degli dèi.

«Guardate questo, mortali, e constatate la nostra potenza.»

Quando il Re-Sacerdote di Istar osò, nella sua arroganza, considerarsi un dio, e il popolo di Istar si inchinò a lui, i veri dèi di Krynn scagliarono su Istar una montagna infuocata, distruggendo la città e trasportandola lontano, sotto il mare. Le acque dell’oceano assunsero un colore marrone rossastro. I saggi affermavano che quel colore provenisse dal terreno sabbioso del fondo marino. La maggior parte della gente riteneva che la sfumatura rossa provenisse dal sangue di coloro che erano morti nel Cataclisma. Quale che ne fosse la causa, il colore diede il nome al mare. Da allora venne chiamato Mare di Sangue.

Sul luogo del disastro gli dèi crearono un vortice. Quell’immenso gorgo tinto di sangue aveva lo scopo di tenere lontano chi avrebbe potuto disturbare il luogo di riposo definitivo dei morti e di servire da costante promemoria ai mortali riguardo alla potenza e alla maestà degli dèi. Temuto e rispettato dai marinai, il Vortice era uno spettacolo terrificante e spaventoso, le cui acque rosse roteanti scomparivano in una voragine infernale di tenebra. Una volta intrappolati nelle sue spire, non vi era via di fuga. Le vittime erano trascinate al loro destino sotto i mari impetuosi.

Poi Takhisis si impadronì del mondo. Senza l’ira degli dèi ad agitarlo, il Vortice prese a ruotare sempre più lentamente e poi si fermò del tutto. Le acque del Mare di Sangue divennero placide come quelle di qualunque laghetto di campagna.

«Ma guarda che cosa è diventato il Mare di Sangue.» La voce di Chemosh aveva una sfumatura di collera e disgusto. «Una fogna.»

Schermandosi gli occhi dal sole del mattino, Mina guardò verso il punto indicato da Chemosh, verso quella che era stata una delle meraviglie di Krynn, uno spettacolo tanto terrificante quanto magnifico.

Il Vortice aveva mantenuto vivo il ricordo e l’ammonimento di Istar. Adesso le acque un tempo famigerate del Mare di Sangue lambivano fiacche gli arenili disseminati di sporcizia e di rifiuti. Resti di casse da imballaggio sfondate e assi coperte di melma, reti in putrefazione, teste di pesci e bottiglie in frantumi, conchiglie schiacciate e alberi di nave scheggiati galleggiavano sull’acqua oleosa, dondolando pigramente avanti e indietro con il faticoso moto del mare. Soltanto i più anziani rammentavano il Vortice e ciò che vi era al di sotto: le rovine di una città, di un popolo, di un’epoca.

«L’Era dei Mortali», sogghignò Chemosh. Con la punta dello stivale scostò una medusa morta. «Ecco il loro lascito. La soggezione e la paura e il rispetto per gli dèi non esistono più, e che cosa rimane al loro posto? Rifiuti e avanzi di mortali.»

«Si potrebbe dire che gli dèi possano incolpare soltanto se stessi», osservò Mina.

«Forse dimentichi che stai parlando con uno di quegli dèi», ribatté Chemosh, con gli occhi scuri scintillanti.

«Chiedo scusa, mio signore», disse Mina. «Perdonatemi, ma qualche volta dimentico...» Si interruppe, incerta su dove avrebbe condotto quella frase.

«Dimentichi che io sono un dio?» domandò lui irosamente.

«Mio signore, perdonatemi...»

«Non scusarti, Mina», disse Chemosh. La brezza marina gli scompigliava i lunghi capelli scuri, soffiandoglieli via dal viso. Chemosh guardò verso il mare, vedendo ciò che vi era un tempo, vedendo ciò che vi era adesso. Sospirò profondamente. «È colpa mia. Io vengo a te da mortale. Io ti amo da mortale. Voglio che tu mi consideri un mortale. Questo mio aspetto è soltanto uno fra tanti. Gli altri non ti piacerebbero molto», soggiunse sarcasticamente.

Allungò la mano verso di lei e Mina la prese. Lui la attirò a sé, e rimasero stretti sulla riva del mare, col vento che mescolava i loro capelli, neri e rossi, ombra e fiamma.

«Hai detto la verità», ammise Chemosh. «La colpa è di noi dèi. Anche se non ci siamo impadroniti noi del mondo, abbiamo dato a Takhisis l’occasione di farlo. Tutti noi eravamo tanto assorti nella nostra piccola parte di creato che ci siamo chiusi nelle nostre bottegucce, seduti sui nostri sgabelli con i nostri piedini intrecciati attorno ai pioli, a scrutare la nostra opera come un sarto miope, lavorando d’ago su qualche pezzetto dell’universo. E quando un giorno ci siamo destati e abbiamo scoperto che la nostra Regina era fuggita col mondo, che cosa abbiamo fatto? Abbiamo forse afferrato le nostre spade fiammeggianti percorrendo i cieli e sparpagliando le stelle alla sua ricerca? No. Siamo corsi fuori dalle nostre bottegucce tutti sbalorditi e spaventati e ci siamo torti le mani e abbiamo gridato: "Ahinoi! Il mondo non c’è più. Che faremo mai?"»