Quella potenza ignota che Chemosh percepiva lì sotto aumentava, non diminuiva, o per lo meno così giudicò Mina dall’espressione sempre più cupa di lui. Chemosh non le parlava. Non la guardava.
Mina cercò di rimanere concentrata, di stare all’erta in caso di pericolo. Lo trovava difficile, però. Si trovava in un mondo diverso, un mondo dalla bellezza strana ed esotica, ed era continuamente distratta. I pesci la superavano nuotando, le sfrecciavano attorno, alcuni la scrutavano curiosi, altri la ignoravano completamente. Banchi di coralli con sfumature rosa si innalzavano dal fondo del mare, ospitando una vera e propria foresta di piante dall’aspetto strano, ed esseri che sembravano piante ma non lo erano, come scoprì Mina quando toccò quello che le pareva un fiore e che la sferzò, pungendola. I colori di tutto, pesci e piante, erano più vividi, più luminosi e vibranti di qualunque colore lei avesse mai visto sulla terraferma.
Mina dimenticò il pericolo e si abbandonò a quell’incanto. Banchi di pesci argentei si muovevano a scatti e ruotavano su se stessi all’unisono come argento vivo. Pesci minuscoli guizzavano verso di lei, le mordicchiavano le dita. Altri si nascondevano alla vista, scomparendo dentro usci di corallo e tuffandosi in finestre di corallo.
All’improvviso Chemosh sibilò un avvertimento. Afferrando Mina, la trascinò fra le ombre di rami verdi e ondeggianti.
«Che cosa c’è?» domandò lei a bassa voce.
«Guarda! Guarda lì!» rispose lui, incredulo e furioso.
Dal fondo marino si innalzava un edificio dalle pareti di cristallo liscio e luccicante. Quella struttura cristallina catturava i raggi di luce solare immersi nell’acqua e li teneva prigionieri, cosicché l’edificio brillava di lastre tremolanti di luce acquosa. Sovrastava l’edificio una cupola di marmo nero. In cima alla cupola luccicava al sole un cerchietto di oro rosso lucidato e intessuto d’argento. Il centro del cerchietto era nerissimo, come se nel mare si fosse aperto un buco per rivelare il vuoto dell’universo.
«Che cos’è quel luogo, mio signore?» domandò Mina, in soggezione.
«La Torre dell’Alta Magia di Istar, dissacrata, bruciata, colpita da meteore, sventrata dal fuoco, disseminata di macerie», rispose Chemosh, soggiungendo con un’imprecazione: «In qualche modo è stata ricostruita».
8
Un attimo prima Rhys e Nightshade erano nella cella di Zeboim, a discutere pazientemente con la dea, cercando di farla ragionare. Un attimo dopo, nello spazio fra un respiro e l’altro, una parola e l’altra, uno strepito e l’altro, Rhys si trovò in piedi su una pietra da lastrico parzialmente sbriciolata, nel mezzo di un’isola-fortezza, con l’eco del mare infuriato che continuava a rombargli nella testa. Stancatasi della discussione, Zeboim vi aveva posto fine.
Rhys non era mai stato sul Bastione della Tempesta. Ne aveva udito delle storie, ma aveva prestato scarsa attenzione a quei racconti. Non era tipo da bramare l’avventura. Non si univa ai monaci più giovani, che si emozionavano nell’udire storie di fantasmi narrate attorno al fuoco nelle sere d’inverno. Il più delle volte abbandonava quel fuoco confortevole per andare a camminare da solo sulle colline gelate, godendosi la bellezza fredda e luccicante delle stelle ricoperte di brina.
I corpi di quei giovani monaci giacevano sottoterra. I loro spiriti, si sperava, vagavano liberi fra quelle stesse stelle. Lui era partito per risolvere il mistero della loro morte. Conoscendone il come, doveva ancora scoprirne il perché. La sua ricerca l’aveva condotto qui. Ripensando alla strada percorsa, non la vedeva interamente per via di tutte le curve e le deviazioni intraprese.
Se avesse obbedito a Majere e fosse rimasto al monastero a cercare la perfezione di corpo e mente, che cosa starebbe facendo adesso? Conosceva bene la risposta. Era l’ora del tramonto. Era quasi il momento di riportare le pecore giù dalle colline. Lui sarebbe stato seduto comodo nell’erba alta, cullando fra le braccia il bastone, con Atta distesa al suo fianco. La cagna sarebbe stata lì a osservare le pecore e a osservare lui, in attesa del comando che l’avrebbe spedita a sfiorare l’erba, correndo su per la collina.
La scena era pacifica, ma lui no. Il suo spirito era turbato, infestato da dubbi e tumulti interiori. Non era più libero di vagare tra le stelle di notte. Sarebbe andato ogni sera a far visita alla fossa comune e avrebbe pensato, guardando la nuova erba che incominciava a ricoprirla, di avere tradito i suoi confratelli, tradito i suoi familiari, tradito l’umanità. Rhys guardò quello che sarebbe potuto essere e l’immagine si dissolse. Se fosse morto in questo luogo orribile, come sembrava più che probabile, il suo spirito avrebbe proseguito verso la fase successiva del suo viaggio, soddisfatto di sapere che lui aveva agito bene, anche se tutto era poi finito male.
Un tramonto sgargiante inondava il cielo di colori rosso e oro e porpora, chiazzando di colori splendenti le mura grigie del Bastione della Tempesta. Il primo pensiero incongruo di Rhys fu che la fortezza aveva un nome sbagliato. Sul Bastione della Tempesta non infuriavano tempeste. Il cielo era limpido, a parte l’unico sbuffo solitario di una nube bianca che corse via rapidamente, timorosa di essere catturata. Non si agitava nessuna brezza sulla terra o sull’acqua. Il mare sciabordava cupo contro i dirupi. Piccole onde lambivano il fondo delle rocce frastagliate, blandendole, accarezzandole.
Rhys studiò l’ambiente circostante, esaminandolo a lungo e attentamente: le formidabili torri che si protendevano in alto verso il cielo abbagliante, la piazza d’armi su cui lui si trovava, i vari edifici annessi sparpagliati fra le rocce. E al di là e tutto attorno a lui il mare, che osservava avidamente ogni suo movimento.
Ogni suo movimento. Suo e soltanto suo. Il kender non si vedeva da nessuna parte. Rhys sospirò e scrollò il capo. Aveva cercato di spiegare a Zeboim che la presenza del kender era essenziale per il suo piano. Aveva ritenuto di averla convinta; di questo, per lo meno, se non di altro. Forse il kender era ruzzolato fuori dall’etere cadendo su una diversa parte dell’isola. Forse...
«Nightshade?» chiamò a bassa voce Rhys.
Rispose uno squittio indignato. Lo squittio proveniva dalla bisaccia di cuoio appesa alla cintura di Rhys, e dopo un attimo di stupore Rhys emise un sospiro di sollievo. Zeboim aveva attuato il piano di Rhys con la sua consueta impetuosità, solo che non si era presa la briga di dirglielo.
«Rhys!» piagnucolò Nightshade, con la voce soffocata dalla bisaccia in cui era celato, «che è successo? Dove sono? È buio pesto qui dentro e puzza di formaggio di capra!».
«Stai zitto, amico mio», ordinò Rhys e mise la mano con fare rassicurante sopra la bisaccia.
La bisaccia obbediente si zittì, anche se Rhys se la sentiva fremere contro la coscia. Diede al kender una pacca tranquillizzante.
«Sei dentro la mia bisaccia. Io e la bisaccia siamo sul Bastione della Tempesta.»
La bisaccia ebbe un sobbalzo.
«Nightshade», disse Rhys, «devi restare perfettamente immobile. Ne va della nostra vita».
«Scusa, Rhys», squittì il kender. «Sono un po’ sorpreso, ecco tutto. È stato tutto così improvviso!» L’ultima parola era uno strillo.
«Lo so», rispose Rhys, sforzandosi di mantenere calmo il proprio tono. «Nemmeno io mi aspettavo di compiere questo viaggio. Ma adesso siamo qui e dobbiamo andare avanti col nostro piano come abbiamo discusso. Tu puoi farcela?»
«Sì, Rhys. Per un attimo ho perso il controllo. È un po’ un brutto colpo, sai, trovarti alto cinque centimetri e infilato in una sacca che puzza di formaggio di capra e poi scoprire che sei venuto a far visita a un cavaliere della morte.» Nightshade sembrava amareggiato.
«Capisco», disse Rhys, contento che il kender non potesse vedere il suo sorriso.
«Adesso però ho superato tutto questo», soggiunse Nightshade dopo una pausa per riprendere fiato. «Puoi contare su di me.»
«Bene.» Rhys si guardò di nuovo attorno. «Non ho idea di dove siamo né dove dovremmo andare. Zeboim ci ha mandati via prima che potessi chiederglielo.»