Le torri della massiccia fortezza si innalzavano sui dirupi. Tutti gli edifici sembravano essere stati scolpiti sull’isola come uno scultore ricava la sua opera da un blocco di marmo, lasciando la base sgrossata, la sommità liscia e conformata e lavorata con destrezza. Rhys aveva la strana sensazione di trovarsi sul punto più elevato di una scheggia di terra frastagliata, col resto del mondo a digradare tutto attorno a lui. Sulla sua collina si era spesso sentito in comunione con un universo benevolo. Qui si sentiva solo, isolato e abbandonato, in un universo a cui non importava un fico secco.
Le pietre da lastrico della piazza d’armi irradiavano nell’aria il calore del sole pomeridiano. Il sudore gocciolava sul collo e sul petto di Rhys. Il kender, pensò Rhys, probabilmente stava soffocando. Rhys aprì leggermente la bisaccia per lasciare entrare più aria.
«Stai zitto», ripeté. «E stai fermo.»
A un’estremità dell’isola si trovavano due torri enormi che dovevano essere gli edifici principali della fortezza. Rhys avrebbe dovuto attraversare tutta la piazza d’armi per raggiungerle. Alzando lo sguardo sulla miriade di finestre su quelle alte torri, Rhys si rese conto che il cavaliere della morte, Ausric Krell, poteva essere lì a osservarlo.
Ripensò alla conversazione che si era tenuta nella cella della prigione qualche istante prima che lui partisse tanto inaspettatamente per questo viaggio.
Maestà, io e Nightshade abbiamo bisogno del vostro aiuto se dobbiamo sopravvivere a questo incontro col cavaliere della morte. Mi avevate promesso di conferirmi la vostra potenza sacra...
Ho cambiato idea, monaco. Ci ho riflettuto. Ciò che tu chiedi è troppo pericoloso per mio figlio. Se tu fallisci, Ariakan sarà ancora nelle mani di Chemosh. Se lui anche solo sospetta che io ti abbia aiutato, si vendicherà sul mio povero figlio.
Signora, senza il vostro aiuto, noi non possiamo procedere...
Bah! Il tuo piano è buono, che più buono non si può, date le circostanze. Potresti riuscirci. Se ci riesci, non hai nulla di cui preoccuparti. Se non ci riesci, la morte per te non avrà importanza. Per via del tuo sacrificio, ti sarà garantita una vita pacifica dopo la morte. Majere difficilmente potrà negartela, mentre il mio povero figlio...
Maestà...
Fu allora che Zeboim pose fine alla discussione.
Adesso lui si trovava sul Bastione della Tempesta, costretto ad affrontare un cavaliere della morte avendo come arma soltanto il suo bastone e per compagno un kender in miniatura, senza alcun dio a fornirgli aiuto. Guardando lontano verso le onde cupe e il cielo limpido che si oscurava, Rhys strinse il bastone, che era stato un ultimo mesto dono di Majere, e recitò una preghiera. Non sapeva chi stesse pregando, forse nessuno: forse il mare, forse il cielo infinito. Non chiese incantesimi, né magia sacra, né poteri divini. Inutile chiedere. Non avrebbe risposto nessuno.
«Datemi forza», pregò, e con questo si incamminò verso la fortezza per cercare il cavaliere della morte.
Aveva compiuto appena qualche passo quando un’ombra discese su di lui da dietro. L’ombra era fredda come la disperazione, tenebrosa come la paura. Rhys udiva alle proprie spalle il cigolio del cuoio e lo sferragliare dell’armatura e il rumore del respiro, che non era il rumore di un respiro vivente ma il suono sibilante e stridulo di un morto vivente che cerca di rammentare come si faccia a respirare. Il fetore della putrefazione, della morte, gli riempì il naso e la bocca. Tra il fetore e l’orrore, Rhys era tanto disgustato che per un attimo temette di perdere i sensi.
Rhys strinse forte il bastone. Il suo io spirituale ingaggiò una battaglia. La paura era l’arma più potente del cavaliere della morte. Rhys doveva sconfiggere la paura oppure crollare sul posto. Il suo spirito combatté la paura, l’anima cercò di vincere la debolezza intrinseca della carne. La lotta fu breve, intensa. Rhys si era addestrato a questo in tutti i suoi giorni trascorsi al monastero. Non poteva invocare Majere in suo aiuto, ma poteva invocare gli insegnamenti di Majere. Lo spirito vinse. L’anima trionfò. La sensazione di disgusto passò. Il formicolio ardente negli arti si attenuò, anche se la mano che stringeva il bastone gli si era intorpidita.
Padrone di sé, conservò questa padronanza e si girò con calma, senza fretta, per guardare in faccia la paura.
Alla vista del cavaliere della morte, la determinazione di Rhys fu sul punto di sgretolarsi. Krell era vicino a Rhys, incombeva su di lui. Guardando nelle fessure per gli occhi dell’elmo, Rhys vide la maledetta luce dei morti viventi, una luce feroce e infuocata come il sole, che però non poteva illuminare la tenebra di quell’essere intrappolato all’interno dell’armatura macchiata di sangue. Rhys si fece forza per guardare quell’essere al di là della luce ardente.
Non era imponente. Era ignobile e avvizzito.
Gli occhietti rossi di Krell scrutavano Rhys. «Prima di ucciderti, monaco della Mantide, ti darò la possibilità di dirmi che cosa ci fai sulla mia isola. La tua spiegazione dovrebbe essere divertente.»
«Vi sbagliate, signore. Io non sono un monaco di Majere. Sono venuto a parlare a nome di Zeboim, per negoziare riguardo all’anima di suo figlio.»
«Sei vestito da monaco», sogghignò Krell, guardandolo di traverso.
«Le apparenze ingannano», ribatté Rhys. «Voi, signore, siete vestito da cavaliere.»
Krell lo guardò con occhio furioso. Aveva la sensazione di essere stato insultato, ma non ne era certo. «Lascia perdere. Sarò io a ridere per ultimo, monaco. Riderò per giornate intere, purché tu non mi muoia troppo presto, come tanti di quei bastardi.»
Krell dondolò all’indietro sui talloni, dondolò in avanti, con le mani agganciate alla cintura.
«Zeboim vuole negoziare, giusto? Molto bene. Ecco le mie condizioni, monaco: tu mi intratterrai come fanno tutti i miei "ospiti" giocando con me a khas. Se per caso mi batti ti ricompenserò tagliandoti la gola.» Soggiunse, caso mai Rhys non avesse afferrato: «Ti ucciderei rapidamente, capisci».
Rhys annuì, tenne stretto il bastone. Finora tutto bene. Tutto stava andando come previsto.
«Se non mi batti, e ti avverto che io sono un giocatore esperto, ti darò un’altra possibilità. Io non sono tanto cattivo, dopo tutto. Ti darò una possibilità dopo l’altra di battermi. Giocheremo una partita dopo l’altra dopo l’altra.»
Krell fece un movimento con la mano guantata. «Il tabellone è pronto in biblioteca. Una camminata piuttosto lunga, ma per lo meno puoi goderti questa giornata insolitamente bella che abbiamo. Ti potrà far piacere dare un’ultima occhiata al tramonto.»
Krell ridacchiò, con un suono orribile, il suo divertimento riecheggiò sordamente nell’armatura vuota. Si avviò a passi pesanti, strofinandosi allegramente le mani in previsione della partita. A metà del cortile si fermò e si girò verso Rhys.
«Ti ho accennato che per ogni pezzo di khas che perdi, monaco, ti spezzerò un osso?» Krell rise apertamente. «Io comincio con le ossa piccole, le dita delle mani e dei piedi. Poi ti rompo le costole, una dopo l’altra. Dopo di che forse una clavicola, un polso o un gomito. Poi passo alle gambe: una tibia, un femore, il bacino. Ti lascio la spina dorsale fino alla fine. Per allora mi supplicherai di ucciderti. Ti ho detto che trovo divertente questo gioco! Adesso vado a sistemare il tabellone. Non farmi aspettare. Non vedo l’ora di sentire che cosa ha da offrirmi Zeboim in cambio di suo figlio.»
Il cavaliere della morte si allontanò a grandi passi. Rhys rimase immobile a guardarlo. «Oh, Rhys!» gridò Nightshade, inorridito.
«Non parlare così forte. Tu sei bravo a giocare a khas?» domandò a bassa voce Rhys.
«Non molto», rispose Nightshade, con la voce tremante. «Saremo costretti a dare dei pezzi, Rhys. È l’unico modo per giocare. Mi dispiace. Cercherò di trovare rapidamente Ariakan.»
«Fai del tuo meglio, amico mio», disse Rhys e, stringendo il bastone, si incamminò verso la torre.