C’era un’altra parte di lui — forse Mike Ainsel, pensò, scomparso nel nulla quando qualcuno aveva premuto un pulsante nella prigione di Lakeside — che stava ancora cercando di raccapezzarsi, di capire il disegno complessivo.
«Gli indiani nascosti» disse a voce alta.
«Cosa?» rispose la voce irritata e gracchiante di Chernobog dal sedile anteriore.
«Quei disegni che bisognava colorare da bambini. "Riuscite a trovare gli indiani nascosti nel disegno? In questo disegno ci sono dieci indiani, siete capaci di trovarli tutti?" A una prima occhiata si vedono soltanto la cascata, le rocce e gli alberi, poi se inclini un pochino il foglio vedi che quell’ombra è un indiano…» Sbadigliò.
«Dormi» suggerì Chernobog.
«Ma il disegno complessivo…» disse Shadow, e si addormentò sognando gli indiani nascosti.
L’albero si trovava in Virginia. Lontano da tutto, in un campo dietro una vecchia fattoria. Per arrivare guidarono per quasi un’ora oltre Blacksburg, in direzione sud, lungo strade che avevano nomi come Pennywinkle Branch e Rooster Spur. Si persero girando due volte in tondo; il signor Nancy e Chernobog si innervosirono con Shadow, e bisticciarono anche tra loro.
Si fermarono a chiedere indicazioni nel piccolo emporio a fondovalle, dove si biforcava la strada. Un vecchio uscì dal retrobottega e li fissò: indossava una tuta Oshkosh B’Gosh e nient’altro, nemmeno le scarpe. Chernobog si comprò un piedino di maiale in salamoia e andò a mangiarselo sul portico, mentre il vecchio con la tuta disegnava una cartina per il signor Nancy su un tovagliolo, indicandogli bene i punti in cui svoltare e le pietre miliari.
Ripartirono, sempre con il signor Nancy al volante, e arrivarono in dieci minuti. Sul cartello appeso al cancello c’era scritto FRASSINO.
Shadow scese per aprire il cancello. Il pulmino avanzò sobbalzando sui prati. Shadow richiuse il cancello. Camminò per sgranchirsi le gambe, mettendosi a correre quando vide che il pulmino si allontanava troppo, godendosi il piacere del movimento.
Durante il viaggio dal Kansas aveva perso la nozione del tempo. Avevano guidato per due giorni? O tre? Non lo sapeva.
Il corpo che avevano a bordo non era ancora entrato in fase di decomposizione. Si sentiva un leggero odore di Jack Daniel’s e di miele acido. Non era sgradevole. Di tanto in tanto Shadow tirava fuori l’occhio di vetro dalla tasca e lo guardava: la frattura era profonda, probabilmente provocata dall’impatto del proiettile, ma a parte la minuscola scheggia mancante su una zona dell’iride, la superficie era intatta. Lo faceva scorrere tra le dita, nascondendolo nel palmo, spingendolo. Sebbene fosse un macabro souvenir in qualche modo lo confortava, e sospettava che Wednesday avrebbe trovato divertente sapere che era finito nella sua tasca.
La fattoria era immersa nel buio, con porte e finestre chiuse. I prati erano incolti, con l’erba alta. Il tetto dell’edificio si stava sgretolando, era coperto di fogli di plastica neri. Superato un dosso Shadow vide l’albero.
Era grigio argenteo, più alto della fattoria. Era l’albero più bello che avesse mai visto: spettrale e insieme reale e quasi perfettamente simmetrico. Gli sembrò subito familiare: si chiese se l’avesse sognato, poi capì che no, lo aveva già visto molte volte, ne aveva visto una copia: il fermacravatta d’argento di Wednesday.
Il pulmino proseguì a balzelloni per fermarsi a circa sette metri dal tronco.
In piedi accanto all’albero c’erano tre donne. Dapprima Shadow pensò che fossero le Zarja, invece no, erano tre donne che non conosceva. Avevano l’aria stanca e annoiata, come se fossero lì ad aspettare da tempo immemorabile. Ciascuna teneva una scala di legno a pioli. La più robusta delle tre aveva anche un grosso sacco marrone. Sembravano bambole russe: una grande — come Shadow, forse più alta ancora — una media, e una talmente piccola e gobba che a una prima occhiata Shadow l’aveva scambiata per una bambina. Si somigliavano talmente che dovevano per forza essere sorelle.
La più piccola fece un inchino. Le altre due rimasero a guardare. Stavano fumando una sigaretta in tre e la finirono, poi una di loro spense il mozzicone su una radice.
Chernobog aprì il portellone del pulmino, la più alta delle tre donne lo raggiunse e sollevò il corpo di Wednesday come se fosse un sacco di farina, con grande disinvoltura, e lo portò fino all’albero. Lo adagiò a circa tre metri dal tronco, poi lo liberò del sudario insieme alle sorelle. Alla luce del sole l’aspetto di Wednesday era molto peggiore di quello che era sembrato al fioco bagliore delle candele nella camera del motel, e Shadow distolse subito gli occhi. Le donne gli rassettarono l’abito e poi lo appoggiarono su un angolo del lenzuolo per avvolgercelo di nuovo.
Si avvicinarono a Shadow.
Sei tu il prescelto? chiese la più grande.
Colui che piangerà il Padre Universale? chiese quella di altezza media.
Hai deciso di fare la veglia? chiese la più piccola.
Shadow annuì. In seguito non sarebbe riuscito a ricordare se aveva davvero sentito la voce delle tre donne. Forse aveva semplicemente capito cosa gli stavano chiedendo dall’espressione, dagli sguardi.
Il signor Nancy, che era entrato nella fattoria per usare il bagno, tornò verso l’albero. Stava fumando uno dei suoi sigaretti. Aveva un’aria pensierosa. «Shadow, non sei obbligato. Possiamo trovare qualcuno di più adatto.»
«La faccio io» si limitò a rispondere Shadow.
«E se tu morissi?» chiese il signor Nancy. «Se la veglia ti ammazzasse?»
«Allora mi avrà ammazzato.»
Il signor Nancy gettò il sigaretto nell’erba, arrabbiato. «Ti avevo detto che hai la segatura al posto del cervello, e te lo ripeto adesso. Non capisci che sto cercando di offrirti una via d’uscita?»
«Mi dispiace» disse Shadow, e non aggiunse altro. Nancy se ne tornò verso il pulmino.
Toccò a Chernobog avvicinarsi. Non aveva un’aria contenta. «Devi uscire vivo di qui. Fallo per me.» Poi gli picchiò delicatamente con le nocche sulla fronte dicendo: «Pum!». Gli diede una stretta a una spalla, gli batté una pacca su un braccio e andò a raggiungere il signor Nancy.
La donna grande, che sembrava rispondere al nome di Urtha o Urdar — Shadow non riusciva a pronunciarlo in modo per lei soddisfacente — gli spiegò a gesti che si doveva spogliare.
«Completamente?»
La donna grande scrollò le spalle. Shadow rimase in mutande e maglietta. Insieme le tre sorelle appoggiarono le scale all’albero. Gli indicarono una delle tre scale, dipinta a mano con fiori e foglie attorcigliati intorno ai due montanti.
Shadow salì i nove pioli e sollecitato dalle donne sedette su un ramo basso.
La donna media rovesciò sull’erba il contenuto del sacco: un groviglio di corde sottili e scure perché vecchie e sporche, e cominciò a separarle in base alla lunghezza, disponendole con cura accanto al corpo di Wednesday.
Adesso salirono sulle scale e cominciarono a far passare le corde, fermandole con nodi intricati ed eleganti, prima all’albero e poi intorno a Shadow. Senza alcun imbarazzo, come levatrici o infermiere o quelle pie donne che si prendono cura dei cadaveri, gli sfilarono maglietta e mutande, lo legarono, non troppo stretto, ma in modo sicuro e definitivo. Shadow si stupì di come le funi e i nodi sostenessero perfettamente il suo peso. Gli passavano sotto le braccia, tra le gambe, intorno alla vita, alle caviglie, al petto, fissandolo saldamente all’albero.
L’ultima corda venne passata, non stretta, intorno al collo. All’inizio si sentì scomodo, ma siccome il peso era ben distribuito, nessuna fune gli tagliava la carne.
Era sospeso con i piedi a un metro e mezzo da terra. L’albero, spoglio ed enorme, tendeva i suoi rami verso il cielo grigio, e la corteccia era levigata, argentea.