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«Pensavo di essere già nel regno dei morti» disse Shadow.

«No. Non ancora. Siamo in una fase preliminare.»

L’imbarcazione scivolava sulla superficie immobile dell’acqua sotterranea. Poi, senza muovere il becco, il signor Ibis continuò: «Voi parlate di vivi e morti come se si trattasse di due categorie che si escludono a vicenda, come se non si potesse avere un fiume che è anche strada, o una canzone che è anche colore».

«Infatti non si può» disse Shadow. «Vero?» Dall’altra sponda l’eco rimandava le sue parole in un sussurro.

«Devi ricordare» riprese il puntiglioso signor Ibis «che la vita e la morte sono due facce della stessa medaglia. Come testa e croce sulla moneta.»

«E se avessi una moneta truccata?»

«Non ce l’hai.»

Shadow rabbrividì. Poi, mentre attraversavano l’acqua scura, rivide le facce dei bambini che lo fissavano con aria di rimprovero: erano facce sature d’acqua, molli, con gli occhi ciechi, vitrei. Nella caverna sotterranea nessun vento increspava la nera superficie del lago.

«Sono morto, allora?» domandò Shadow. Si stava abituando all’idea. «Oppure morirò tra poco?»

«Siamo diretti alla Casa dei Morti. Ho espressamente richiesto di poterti accompagnare io.»

«Perché?»

«Sei un buon lavoratore. Perché no?»

«Perché…» Shadow cercò di mettere ordine nei pensieri. «Perché non ho mai creduto in voi. Perché non so niente della mitologia egizia. Perché non me l’aspettavo. Che cosa è successo a San Pietro e alle porte del Paradiso?»

La testa bianca dal lungo becco si mosse con gravita da un lato all’altro. «Il fatto che tu non credessi in noi non ha alcuna importanza» rispose il signor Ibis. «Noi abbiamo creduto in te.»

L’imbarcazione arrivò all’argine. Il signor Ibis scese in acqua e invitò Shadow a fare altrettanto. Dalla prua prese una cima e passò a Shadow la lanterna che aveva la forma di una luna crescente. Si arrampicarono sull’argine, dove il signor Ibis legò l’imbarcazione all’anello di metallo piantato nella roccia, poi prese la lampada e si incamminò agilmente. La teneva così alta da gettare grandi ombre per terra e sulle pareti di pietra.

«Hai paura?» gli domandò.

«Non esattamente.»

«Bene, cerca di coltivare sentimenti di sincero rispetto e terrore spirituale, mentre camminiamo, perché sono i più adeguati alla circostanza.»

Shadow non aveva paura. Era interessato, apprensivo, nient’altro. Non lo spaventava l’oscurità in movimento, né il fatto d’essere morto, non provò paura nemmeno davanti alla creatura con la testa di cane e grande come un silo di grano che li fissava. Però quando emise un profondo ruggito a Shadow si rizzarono i peli sul collo.

«Shadow» gli disse la creatura. «È giunto il tempo del giudizio.»

Shadow guardò verso l’alto. «Signor Jacquel?» chiamò.

Le mani di Anubi discesero, enormi e scure, afferrarono la testa di Shadow e l’avvicinarono alla sua.

Lo sciacallo lo studiò con occhi luminosi e scintillanti; lo esaminò con il distacco con cui il signor Jacquel aveva esaminato la ragazza morta sul tavolo. Shadow sapeva che gli stava estraendo tutte le colpe, gli sbagli, le debolezze, che li stava soppesando e misurando; che in un certo senso stava per essere sezionato, affettato e infine assaggiato.

Non sempre ricordiamo gli atti che non ci fanno onore. Li giustifichiamo, li ammantiamo di bugie o li seppelliamo sotto il pesante coperchio della rimozione. Tutte le cose che Shadow aveva fatto nella vita e di cui non andava fiero, tutte le cose che rimpiangeva di non aver fatto diversamente o di non aver fatto per niente, gli si presentarono davanti in un vortice di colpa e rimpianto e vergogna che non lasciava scampo. Era nudo e aperto come un cadavere sul tavolo del laboratorio, e l’oscuro Anubi, il dio sciacallo, era il suo prosettore, il suo accusatore, il suo giudice.

«Ti prego» disse Shadow. «Basta, ti prego.»

L’esame non era finito. Ogni bugia, ogni oggetto rubato, ogni ferita inflitta a un altro, tutti i piccoli crimini e i piccoli omicidi che si commettono in una giornata normale, ognuna di quelle piccole cose e altro ancora venne estratto da lui e portato alla luce dalla creatura con la testa di sciacallo, giudice dei morti.

Shadow cominciò a piangere con singhiozzi dolorosi, in piedi sul palmo scuro del dio. Era tornato bambino, debole e impotente come sempre.

Poi, senza preavviso, tutto finì. Shadow ansimava, continuando a singhiozzare, con il naso gocciolante; si sentiva ancora impotente, ma le mani lo riappoggiarono con cautela, quasi con tenerezza, sul pavimento roccioso.

«Chi ha il suo cuore?» ruggì Anubi.

«L’ho io» rispose una sorniona voce femminile. Shadow guardò in su. C’era Bast in piedi accanto alla creatura che non era più il signor Ibis, e teneva il suo cuore nella mano destra. Le illuminava il volto con una luce color rubino.

«Dallo a me» disse Thoth, il dio con la testa di ibis, prendendo il cuore tra le sue mani — non erano mani umane — e scivolando in avanti.

Anubi gli presentò una bilancia con due piatti.

«Allora è qui che verrò a sapere cosa mi aspetta?» sussurrò Shadow a Bast. «Paradiso, Inferno o Purgatorio?»

«Se la piuma è altrettanto pesante» rispose lei, «potrai sceglierti da solo la tua destinazione.»

«E se non lo è?»

Lei scrollò le spalle come se l’argomento la mettesse a disagio. Poi disse: «Allora daremo il cuore e l’anima in pasto ad Ammet, mangiatore di anime…».

«Forse» disse lui «c’è la possibilità di un lieto fine.»

«Non solo non esiste lieto fine» ribatté lei, «ma non c’è neanche una fine.»

Anubi posò con riverenza una piuma su un piatto della bilancia.

Poi mise il cuore di Shadow sull’altro. Qualcosa si mosse nell’ombra sotto la bilancia, qualcosa che Shadow non volle esaminare da vicino.

La piuma era pesante, ma anche il cuore di Shadow lo era, perciò i piatti ondeggiarono in maniera preoccupante.

Alla fine rimasero in equilibrio e la creatura nell’ombra si rintanò insoddisfatta.

«Allora è finita» disse Bast ansiosa. «Non resta che buttare un altro teschio nel mucchio. Peccato. Avevo sperato che ti potessi rendere utile nella difficile situazione attuale. È come guardare un incidente automobilistico al rallentatore e non poter fare niente per impedirlo.»

«Tu non ci sarai?»

Lei scosse la testa. «Non mi piace che siano altri a scegliere le battaglie per me» disse.

Seguì un silenzio, nella sconfinata Casa dei Morti, che echeggiò nell’oscurità sull’acqua.

Shadow domandò: «Allora posso scegliere dove andare?».

«Scegli» rispose Thoth. «Oppure sceglieremo noi per te.»

«No» disse Shadow. «Va bene. Tocca a me.»

«Dunque?» ruggì Anubi.

«Adesso voglio riposare. Riposare e basta. Nient’altro. Né Paradiso, né Inferno. Niente. Solo che abbia fine.»

«Ne sei sicuro?» chiese Thoth.

«Sì» rispose Shadow.

Il signor Jacquel aprì l’ultima porta, dietro alla quale non c’era niente. Né tenebre. Né oblio. Soltanto il nulla.

Shadow l’accettò senza riserve, e varcò la soglia entrando nel nulla con una gioia strana e violenta.

17

In questo paese tutto è su larga scala. I fiumi sono immensi, il clima estremo, le possibilità sconfinate, i tuoni e i fulmini terrificanti. I disordini fanno tremare le istituzioni del paese. Errori, cattiva condotta, perdite, disgrazie, rovina, tutto è su larga scala.

LORD CARLISLE a George Selwyn, 1778

Il luogo più importante del Sudest degli Stati Uniti d’America viene pubblicizzato su centinaia di vecchi fienili in tutta la Georgia e il Tennessee su fino al Kentucky. Mentre percorre una strada che attraversa serpeggiando la foresta, può capitare che un viaggiatore passi davanti a un fatiscente fienile rosso e veda dipinte sul tetto le parole