"Ma certamente." Il nostro oste gli dà lo strumento e il signore ben vestito — lo chiameremo Barrington — rimane a bocca spalancata, poi si riprende e la chiude, esamina il violino con un atteggiamento rispettoso, come un uomo appena ammesso nel sacrario a esaminare le ossa del profeta. "Santo Gelo!" esclama, "Questo è… deve… non può… eppure è, sì, sì… Ossignore! Ma è incredibile!" e indica il marchio del liutaio sulla striscia di carta scura incollata alla cassa del violino… e comunque lo avrebbe capito anche senza vedere la firma, dal colore della vernice, dal ricciolo, dalla forma.
«A questo punto Barrington tira fuori dalla tasca un raffinato biglietto da visita dove si legge che lui è un importante antiquario specializzato in strumenti musicali. "Allora questo è un violino raro?" chiede l’oste. "Può ben dirlo" risponde Barrington che continua ad ammirare lo strumento in preda a grande meraviglia, "e vale più di centomila dollari, se non mi sbaglio. Essendo del mestiere pagherei cinquanta — no, fino a settantacinquemila dollari sull’unghia — per un pezzo di così squisita fattura. Ho un cliente sulla costa occidentale che sarebbe pronto ad acquistarlo subito, senza nemmeno vederlo, basterebbe un telegramma, per qualsiasi cifra gli chiedessi." A questo punto Barrington consulta l’orologio e assume un’espressione triste. "Il mio treno parte tra poco" dice. "Se voglio prenderlo devo affrettarmi! Brav’uomo, quando torna il proprietario di questo inestimabile strumento, avrebbe la cortesia di dargli il mio biglietto da visita? Purtroppo io devo partire." E ciò detto Barrington se ne va come un uomo che sa che il tempo e i treni non aspettano nessuno.
«Il bravo oste esamina il violino, mentre nelle sue vene scorrono insieme curiosità e cupidigia e a poco a poco va formulando un piano. Però il tempo passa, e Abraham non ritorna. Si sta facendo tardi quand’ecco sulla soglia, malandato ma dignitoso, il nostro violinista. Stringe tra le mani un portafogli che ha visto giorni migliori, un portafogli che nei suoi giorni migliori avrà contenuto al massimo un centinaio di dollari e ne estrae il denaro per pagare la cena o la camera e chiede di riavere il suo strumento.
«Il bravo oste ripone il violino nella custodia appoggiata sul bancone e Abraham la solleva come farebbe una madre per prendere tra le braccia il suo bambino. "Dimmi" lo apostrofa l’oste (mentre nel taschino gli brucia il biglietto da visita di un uomo disposto a pagare cinquantamila dollari), "quanto vale un violino come questo? Mia nipote si è messa in testa di imparare a suonarlo e tra una settimana è il suo compleanno."
«"Questo violino?" risponde Abraham. "Non potrei mai venderlo. Ce l’ho da vent’anni, l’ho suonato in tutti gli stati dell’Unione. E a dire la verità quando l’ho comprato mi era costato ben cinquecento dollari."
«Il bravo oste non smette di sorridere. "Cinquecento dollari? E se te ne offrissi subito mille?"
«In un primo momento il violinista si illumina, poi lo guarda con aria avvilita, e dice: "Ma signore, io sono un violinista, è il mio mestiere. Questo violino mi conosce, mi è affezionato, le mie dita lo conoscono talmente bene che potrei suonarlo anche al buio. Dove vado a trovarne uno così? Mille dollari sono una bella cifra, ma suonare il violino mi dà da campare. Né per mille né per cinquemila, lo venderei."
«Il bravo oste vede ridursi il margine di profitto, ma siccome gli affari sono affari e se si vuole guadagnare bisogna anche investire, "Ottomila dollari" dice. "Non li vale, ma mi sono messo in testa di averlo e voglio così bene a mia nipote, la vizio appena posso."
«Al pensiero di separarsi dall’amato strumento Abraham è quasi in lacrime, ma come si fa a rifiutare ottomila dollari? Soprattutto quando il bravo oste si avvicina alla cassaforte e non ne prende otto ma novemila ben legati dalle fascette, pronti a scivolare dentro la logora tasca del violinista. "Siete un brav’uomo" dice all’oste. "Un santo! Ma dovete giurare che lo tratterete bene!" e con riluttanza gli consegna il violino.»
«E se il bravo oste si fosse limitato a dargli il biglietto da visita di Barrington spiegandogli quale colpo di fortuna gli era capitato?» domandò Shadow.
«In quel caso avremmo investito male i soldi di due cene» rispose Wednesday. Con una fetta di pane pulì il piatto dalla salsa e dalle briciole rimaste e la mangiò con evidente piacere schioccando le labbra.
«Fammi vedere se ho capito» disse Shadow. «A quel punto Abraham se ne va, con novemila dollari in tasca, a incontrare Barrington nel parcheggio o alla stazione. Dividono i soldi, salgono sulla Ford Model A di Barrington e partono diretti verso la città più vicina. Nel baule devono avere uno scatolone pieno di violini da cento dollari.»
«Personalmente mi sono sempre imposto di non pagarli più di cinque» disse Wednesday. Poi si rivolse alla cameriera che stava gironzolando intorno al tavolo. «E adesso, mia cara, dilettaci con la descrizione dei sontuosi dolci disponibili nel giorno della nascita di Nostro Signore.» La fissava — quasi con lascivia — come se niente potesse essere più appetitoso di un morsetto alla sua carne. Shadow si sentiva profondamente a disagio: era come guardare un vecchio lupo che fa la posta a una cerbiatta troppo giovane per sapere che se non si metterà a correre, e subito, finirà sbranata dai corvi in fondo alla radura.
La ragazza arrossì un’altra volta e annunciò che i dolci erano l’apple pie à la mode — «Cioè, sarebbe con una pallina di gelato alla vaniglia» — la torta di Natale à la mode, o il pudding rosso-e-verde con gelatina. Wednesday la fissò negli occhi e le disse che avrebbe provato la torta di Natale à la mode. Shadow rinunciò al dolce.
«Dunque, tornando alle truffe» riprese Wednesday, «quella del violino risale a trecento anni fa o più. E se scegli bene il tuo pollo la puoi rifare anche domani, in questo paese.»
«Avevo capito che il tuo imbroglio preferito non si potesse più fare.»
«Infatti. Comunque quello del violino non è il mio preferito. No, a me piaceva la truffa detta il Gioco del Vescovo. C’era tutto: eccitazione, sotterfugio, effetto sorpresa, e poteva essere fatto ovunque. Forse, mi viene da pensare ogni tanto, con qualche piccola modifica si potrebbe…» rifletté un istante, poi scosse la testa. «No… Il suo momento è finito. Finito diciamo nel 1920, in una città medio-grande tipo Chicago, magari, oppure New York o Philadelphia. Siamo in una gioielleria. Un uomo vestito da prete — non un prete qualsiasi ma un vescovo imporporato — entra e sceglie una collana: uno stupendo gingillo di perle e diamanti che paga con una dozzina di fragranti banconote da cento dollari.
«Sulla prima banconota c’è una macchietta di inchiostro verde e il proprietario della gioielleria si scusa ma insiste con fermezza per mandare a controllare tutte le banconote nella banca all’angolo. Poco dopo il suo dipendente torna dicendo che le banconote sono tutte buone, secondo la banca. Il gioielliere offre di nuovo le sue scuse e il vescovo risponde con cortesia; capisce bene il problema, oggigiorno ci sono tante persone senza legge e senza Dio, tanta immoralità e dissolutezza nel mondo… per non parlare delle donne svergognate, e adesso che anche la malavita esce dalle fogne per finire sugli schermi dei cinematografi che altro ci toccherà sopportare? La collana viene riposta nell’astuccio, e il gioielliere si sforza di non chiedersi perché mai un vescovo voglia acquistare una collana di diamanti da milleduecento dollari, né tantomeno perché voglia pagarla in contanti.
«Il vescovo lo saluta calorosamente ed esce, ma appena fuori della porta una mano gli si inchioda pesante sulla spalla. "Allora, Soapy, vecchia canaglia, ci riproviamo, eh?" e il poliziotto di ronda, un omone grande e grosso con un’onesta faccia irlandese, costringe il vescovo a rientrare nel negozio.