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«Piacere di conoscerla» disse Shadow. Si sfilò un guanto e ricambiò la stretta. «Sa una cosa? Ho sempre pensato che Olsen fosse un cognome per persone più bionde di lei.»

«Il mio ex marito era biondo come da manuale. Biondo e roseo. Non si abbronzava nemmeno sotto la minaccia di un’arma da fuoco.»

«Missy Gunther mi ha detto che lei scrive per il giornale locale.»

«Missy Gunther racconta tutto a tutti. Non capisco che bisogno ci sia di un giornale locale, con lei intorno.» Annuì. «Comunque sì. Raccolgo qualche notizia qui e là, anche se è il caporedattore a fare la cronaca. Io curo la rubrica della natura, quella di giardinaggio, tutte le domeniche la rubrica dei lettori e le "Notizie della Comunità", dove si racconta, con un’abbondanza di dettagli estenuante, chi è uscito a cena con chi nel raggio di venti chilometri.»

Quando lei lo guardò con i suoi occhi neri, Shadow sperimentò un istante di puro déja vu. Sono già stato qui, pensò.

No, lei mi ricorda qualcuno.

«Comunque se vuole riscaldare la casa deve fare come le ho detto.»

«Grazie. Quando sarà calda venga a trovarmi con il bambino.»

«Si chiama Leon. Piacere di averla conosciuta, signor… scusi…»

«Ainsel» disse Shadow. «Mike Ainsel.»

«Che tipo di nome è Ainsel?»

Shadow non ne aveva la minima idea. «Il mio» rispose. «Temo di non essermi mai interessato troppo alla storia di famiglia.»

«Norvegese, forse?»

«Non che io sappia» disse. Poi gli tornò in mente lo zio Emerson Borson e aggiunse: «Dal lato paterno, perlomeno».

Prima che arrivasse Wednesday, Shadow aveva sigillato tutte le finestre, sistemato un termoconvettore nel salotto e un altro in camera da letto. L’appartamento era quasi confortevole.

«Che cosa cazzo è quella porcheria rossa che guidi?» chiese Wednesday come formula di saluto.

«Be’, tu ti sei preso la mia porcheria bianca. A proposito, dov’è?»

«L’ho scambiata con un’altra a Duluth. La prudenza non è mai troppa. Non preoccuparti… quando abbiamo finito ti darò la tua parte.»

«Che cosa ci faccio qui?» chiese Shadow. «A Lakeside, voglio dire. Non al mondo.»

Wednesday sorrise in quel suo modo speciale che a Shadow faceva venire voglia di tirargli un cazzotto. «Sei venuto a vivere qui perché è l’ultimo posto dove verrebbero a cercati. A Lakeside ti posso tenere al riparo da sguardi indiscreti.»

«Chi dovrebbe cercarmi? I berretti neri?»

«Esattamente. Ho paura che ormai per noi la House on the Rock sia territorio proibito. È un momento difficile, comunque ce la faremo. Si tratta soltanto di battere i piedi, agitare i gagliardetti e fare qualche capriola prima che l’azione vera e propria cominci, leggermente più tardi del previsto. Credo che aspetteranno la primavera. Fino ad allora non dovrebbe succedere niente di grosso.»

«Come mai?»

«Perché possono anche blaterare discorsi su micromillisecondi e mondi virtuali e slittamenti paradigmatici e quello che ti pare, ma abitano in questo pianeta e sono pur sempre vincolati al ciclo delle stagioni. Questi sono i mesi morti. Una vittoria ottenuta adesso sarebbe una vittoria morta.»

«Non so di cosa stai parlando» disse Shadow. Non era del tutto vero. Una vaga idea ce l’aveva, ma sperava che fosse sbagliata.

«Sarà un inverno duro, e noi due impiegheremo il tempo nel modo più saggio, radunando le truppe e scegliendo il campo di battaglia.»

«D’accordo» disse Shadow. Sapeva che Wednesday gli stava dicendo la verità, o quantomeno una parte di verità. La guerra era vicina. No, non era esatto: la guerra era già cominciata, adesso stava per iniziare lo scontro finale. «Mad Sweeney mi ha detto che quando ci siamo incontrati la prima volta lui lavorava per te. Me l’ha detto prima di morire.»

«Avrei forse dovuto assumere qualcuno che non era neanche in grado di gestire una rissa da bar? Non temere, hai ripagato abbondantemente la fiducia che avevo riposto in te. Sei mai stato a Las Vegas?»

«Las Vegas nel Nevada?»

«Esatto.»

«No.»

«Ci andiamo questa sera da Madison con un aereo privato, un volo notturno per alti papaveri. Mi sono spacciato per uno di loro e li ho convinti a farci salire.»

«Non ti stanchi mai di dire bugie?» domandò Shadow in tono cortese, per pura curiosità.

«Assolutamente mai. Comunque è la verità. La posta in gioco è molto alta, e noi lavoriamo per i pezzi grossi. Le strade sono pulite, per arrivare a Madison non dovremmo impiegare più di due ore. Spegni le stufe e chiudi la porta. Sarebbe orribile se durante la tua assenza il palazzo finisse in cenere.»

«Da chi andiamo, a Las Vegas?»

Wednesday glielo disse.

Shadow spense i termoconvettori, infilò qualche indumento di ricambio in una borsa da viaggio, si voltò e disse: «Guarda, mi sento un po’ stupido. So che mi hai appena detto chi stiamo andando a trovare, ma inspiegabilmente l’ho già dimenticato. Una specie di vuoto di memoria. Me lo ripeti?».

Wednesday glielo disse di nuovo.

Questa volta gli sembrava di averlo afferrato. Il nome era lì, sulla punta della memoria. Rimpianse di non aver fatto più attenzione. Poi abbandonò il pensiero.

«Chi guida?»

«Tu» rispose Wednesday. Uscirono di casa, scesero la scala di legno e si diressero lungo il sentiero ghiacciato verso la Lincoln nera parcheggiata vicino al marciapiede.

Shadow si mise al volante.

Chi entra in un casinò viene assalito da richiami invitanti, richiami invitanti che solo un uomo di pietra, senza cuore, senza cervello e stranamente sprovvisto di cupidigia potrebbe declinare. Senti: il rumore a mitraglia delle monete d’argento che rotolano e si rovesciano nel vassoietto delle slot machine e a volte finiscono sui tappeti monogrammati viene sostituito dal clangore allettante delle monete introdotte nelle fessure, dalle musichette stridule inghiottite dall’enorme salone, soffocato in un confortevole ronzio di sottofondo quando si arriva ai tavoli da gioco, suoni distanti, perfetti per far scorrere l’adrenalina nelle vene del giocatore.

I casinò possiedono un segreto, un segreto che custodiscono e proteggono e stimano come il più sacro dei loro misteri. La maggior parte della gente non gioca per vincere, come in genere viene pubblicizzato, venduto, dichiarato e sognato. È una facile bugia che dà alla gente l’alibi per entrare da quelle enormi porte sempre aperte.

Il segreto è questo: la gente gioca per perdere. Vengono nei casinò per fare l’esperienza di quell’istante in cui si sentono vivi, in groppa alla ruota della roulette, quando vengono girati come le carte o quando, insieme alle monete, smarriscono nelle fessure anche se stessi. Magari si vantano di qualche vincita, di quella certa notte in cui hanno sbancato il casinò, ma custodiscono come un tesoro, un tesoro prezioso, tutte le volte in cui hanno perso. È una specie di sacrificio rivolto a qualche divinità.

I soldi scorrono in un ininterrotto flusso color verde e argento, passano di mano in mano, dal giocatore al croupier al cassiere alla direzione alla sicurezza per finire nel sancta sanctorum, il luogo più segreto, l’ufficio contabile. Ed è qui, nell’ufficio contabilità del casinò, che vieni a riposare, qui dove i bigliettoni verdi vengono contati, impilati, schedati, in uno spazio che diventa ben presto ridondante man mano che il denaro fluito attraverso il casinò diventa immaginario: una sequenza elettrica di on e off, sequenze che scorrono lungo le linee telefoniche.

Nell’ufficio contabilità vedi tre uomini che contano i soldi sotto l’occhio vitreo delle telecamere di cui sono a conoscenza e sotto lo sguardo da insetto di minitelecamere la cui presenza invece ignorano. Durante il suo turno ogni uomo conta più denaro di quanto ne potrà mai guadagnare in una vita intera. Ognuno di loro, quando dorme, sogna di contare le banconote, di impilarle e legarle con le fascette e di vederne sempre di più che vengono smistate e si perdono. Ognuno di loro almeno una volta alla settimana si è futilmente chiesto se esiste un modo per eludere i controlli di sicurezza del casinò e sparire con tutto quello che riuscirebbe ad arraffare; ognuno di loro ha analizzato il sogno, ha stabilito che è irrealizzabile e si è accontentato di uno stipendio sicuro, evitando lo spettro della prigione e di una tomba senza nome.