«Ho detto a Darren che si stava cercando una notte in guardina. Per un momento ho creduto che volesse picchiarmi, ma era abbastanza sobrio per trattenersi. L’ho accompagnato al campo delle roulotte a sud della città e gli ho detto di darsi una calmata. Che l’aveva fatta soffrire abbastanza… Il giorno dopo se n’è andato.
«Due settimane dopo è sparito Sandy. Non è salito sul pulmino per andare a scuola. Aveva raccontato al suo migliore amico che presto avrebbe rivisto il padre, che Darren gli avrebbe portato un regalo speciale per consolarlo del mancato viaggio in Florida. Da allora non lo ha più visto nessuno. L’accusa potrebbe essere quella di rapimento da parte di un genitore. È difficile trovare un ragazzo che non vuole farsi trovare, capisci?»
Shadow disse che capiva. Ma aveva capito anche qualcos’altro: che Chad Mulligan era innamorato di Marguerite Olsen. Si chiese se l’altro si rendesse conto di com’era palese.
Mulligan rimise in moto con le luci accese e costrinse due ragazzini che correvano a novanta all’ora a fermarsi. Non li multò, limitandosi a "farli diventare timorati di Dio".
Quella sera Shadow sedette al tavolo della cucina per cercare di capire come trasformare un dollaro d’argento in un penny. Aveva trovato il trucco nel Perplexing Parlour lllusions, ma le istruzioni erano inutili e vaghe in maniera esasperante. Quasi in ogni frase comparivano espressioni come "fate sparire il penny nel solito modo". In cosa consisteva il solito modo? In una caduta alla francese? Nell’infilarlo nella manica? Nel gridare "Oh mio Dio, guardate là! C’è un leone di montagna!" e ficcare la moneta in tasca mentre l’attenzione del pubblico è rivolta alla finestra?
Lanciò il dollaro in aria, lo afferrò al volo ripensando alla luna e alla donna che gliel’aveva regalato, poi provò a eseguire il trucco. Non funzionava. Entrò in bagno per provare davanti allo specchio e capì che non aveva senso. Così com’era descritto, quel giochetto non poteva funzionare e basta. Sospirò, infilò le due monete in tasca e sedette sul divano. Si coprì le ginocchia con il plaid di acrilico e cominciò a sfogliare il Minutes of the Lakeside City Council 1872-1884. Il testo era su due colonne e il carattere così minuscolo da risultare praticamente illeggibile. Sfogliò il volume osservando le vecchie fotografie e le diverse incarnazioni dei consiglieri comunali di Lakeside: uomini con lunghe basette e pipe d’argilla, con i cappelli, sciupati o nuovi, calcati su facce in gran parte stranamente familiari. Non lo sorprese vedere che nel 1882 il robusto presidente del consiglio comunale era un certo Patrick Mulligan: opportunamente sbarbato e fatto dimagrire di dieci chili non sarebbe risultato il sosia sputato di Chad Mulligan, il suo… cosa… bis-bis-nipote? Shadow si domandò se in quelle foto avrebbe trovato anche il nonno pioniere di Hinzelmann, ma a quanto pareva non aveva mai rivestito cariche pubbliche. Mentre sfogliava le immagini gli era sembrato di vedere il nome Hinzelmann tra le righe, ma quando tornò indietro a cercarlo non lo trovò, e i caratteri così piccoli gli facevano venire il mal di testa.
Si appoggiò il libro sul petto: la testa gli ciondolava. Ragionevolmente decise che addormentarsi sul divano era una sciocchezza. La camera da letto si trovava a pochi passi. D’altra parte la camera da letto e il letto sarebbero stati a pochi passi anche tra cinque minuti, e comunque voleva soltanto chiudere gli occhi un momento, non dormire…
Un’oscurità fragorosa.
Era in mezzo a una pianura aperta. Accanto c’era il luogo da cui era emerso, il punto dove la terra l’aveva gettato fuori. Le stelle cadevano ancora dal cielo, e ogni stella che toccava la terra rossa diventava un uomo o una donna. Gli uomini avevano lunghi capelli scuri e zigomi pronunciati. Le donne somigliavano tutte a Marguerite Olsen. Era il popolo delle stelle.
Lo guardavano con gli occhi scuri e fieri.
«Parlatemi degli uccelli del tuono» disse Shadow. «Ve ne prego. Non è per me. È per mia moglie.»
A una a una le donne gli voltarono le spalle, e quando non le vide più in faccia erano già scomparse, diventando tutt’uno con il paesaggio. Ma l’ultima, con i capelli striati di ciocche grigio scuro, prima di voltarsi indicò con un dito il cielo color vino.
«Chiediglielo direttamente» disse. I lampi di un temporale estivo illuminarono per un momento il paesaggio da un orizzonte all’altro.
C’erano grandi alture rocciose, creste e vette di arenaria, e Shadow cominciò a scalare la più vicina. Aveva il colore dell’avorio antico. Quando si afferrò a un appiglio, sentì che gli si sbriciolava tra le dita. Sono ossa, pensò. Non è roccia. E una torre fatta di vecchie ossa.
Era un sogno e nei sogni non si ha scelta; o non ci sono decisioni da prendere, oppure le decisioni sono state già prese molto prima che il sogno avesse inizio. Shadow continuò ad arrampicarsi. Gli facevano male le mani, le ossa si spezzavano con schiocchi netti frantumandosi sotto i suoi piedi scalzi. Il vento lo strattonava ma lui si strinse alla parete e continuò a scalare la torre.
Era fatta di un unico tipo d’osso, sempre quello, all’infinito, di forma arrotondata. Immaginò che potesse trattarsi di uova di un uccello gigantesco, ma un altro lampo gli raccontò una storia diversa: quelle forme tondeggianti avevano orbite, e denti digrignati in un sorriso senza allegria.
Da chissà dove giungevano i richiami degli uccelli. La pioggia gli bagnava la faccia.
Si trovava a decine di metri da terra, attaccato alla parete di una torre di teschi, mentre fulmini e saette squarciavano il buio sulle ali di quegli uccelli dalle lunghe ombre che volavano in cerchio: animali enormi e neri, simili a condor, con un collare di piume bianche. Erano uccelli grandissimi e sgraziati, spaventosi d’aspetto, e il battito delle loro ali risuonava nella notte con il fragore del tuono.
Volavano in cerchio intorno alla torre.
Devono avere un’apertura alare di almeno sei metri, pensò Shadow.
Poi il primo uccello si staccò dal gruppo per avventarsi su di lui. Lanciava saette azzurre dalle ali. Shadow si infilò in una fessura tra i teschi, sotto lo sguardo di quelle orbite vuote, tra i sorrisi di quelle dentature d’avorio, ma non si fermò, riprese ad arrampicarsi sulla montagna di teschi, tagliandosi con le schegge d’osso acuminate, in preda a repulsione e terrore, in preda a una grande soggezione.
Un altro uccello gli si lanciò addosso e un artiglio grande come una mano gli si conficcò nel braccio.
Si protese cercando di strappargli una piuma — perché se avesse fatto ritorno alla sua tribù senza la piuma dell’uccello del tuono sarebbe caduto in disgrazia, non sarebbe mai diventato uomo — ma l’uccello del tuono si alzò in volo sfuggendo alla sua presa. Poi si allontanò sospinto dal vento. Shadow riprese a salire.
Devono essere decine di migliaia di teschi, pensò. Mille migliaia. E non sono tutti umani. Raggiunse infine la sommità della montagna mentre i grandi uccelli, gli uccelli del tuono, volavano in cerchio lentamente, navigando sulle raffiche della tempesta con minuscoli aggiustamenti delle ali.