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Sentì una voce, la voce dell’uomo-bufalo, che superava l’ululato del vento, gli diceva che quei teschi appartenevano a…

La torre cominciò a sgretolarsi e il più grande degli uccelli, con gli occhi di un bianco-azzurro accecante come il fulmine precipitò su Shadow in un impeto di tuono e lui cadeva, crollava insieme alla torre di teschi…

Stava squillando il telefono. Shadow non sapeva nemmeno che fosse stato ricollegato. Intontito, turbato dal sogno, alzò il ricevitore.

«Ma cosa cazzo fai?» urlò Wednesday, furibondo come non l’aveva mai sentito. «Cosa cazzo credi di fare, porca puttana?»

«Dormivo» rispose Shadow stupidamente.

«A cosa cazzo serve metterti al sicuro in un posto come Lakeside se poi tu sollevi un vespaio che non sfuggirebbe neanche a un cadavere?»

«Ho sognato gli uccelli del tuono… E una torre. Teschi…» Raccontare il sogno gli sembrava di fondamentale importanza.

«Lo so che cosa stavi sognando. Tutti lo sanno. Dio Onnipotente. A cosa cazzo serve nasconderti se poi ti fai pubblicità in questa maniera?»

Shadow non disse niente.

All’altro capo della linea ci fu una pausa di silenzio, poi Wednesday disse: «Sarò lì in mattinata». Sembrava che la rabbia gli fosse passata. «Andiamo a San Francisco. I fiori nei capelli sono opzionali.» E chiuse la comunicazione.

Shadow appoggiò il telefono sul tappeto e rigidamente si tirò su. Erano le sei del mattino e fuori faceva ancora buio. Si alzò dal divano, rabbrividiva. Il vento ululava sul lago gelato. E qualcuno vicino a lui, separato soltanto da una parete, piangeva. Era certamente Marguerite Olsen; i suoi singhiozzi soffocati erano insistenti e spezzavano il cuore.

Shadow andò in bagno, poi in camera da letto, e chiuse la porta per non sentire il pianto della donna. Il vento ululava e gemeva come se anche lui cercasse un bambino perduto.

A gennaio il clima di San Francisco era intempestivamente caldo, così caldo che Shadow aveva il collo sudato. Wednesday indossava un abito blu scuro e un paio d’occhiali dalla montatura dorata che gli davano l’aspetto di un avvocato dell’ambiente dello spettacolo.

Stavano camminando lungo Haight Street. La gente di strada, le prostitute e i perdigiorno che li guardavano passare non agitarono il bicchiere di carta per l’elemosina e non chiesero né offrirono niente.

Wednesday aveva le mascelle contratte, Shadow si era accorto subito che era ancora arrabbiato. Quando la piccola Lincoln nera si era fermata davanti alla casa, quel mattino, non aveva fatto domande. Durante il tragitto fino all’aeroporto nessuno dei due aveva parlato. Scoprire che Wednesday aveva un posto in prima classe e che lui era in classe turistica era stato un sollievo.

Adesso era tardo pomeriggio. Shadow non tornava a San Francisco da quando era bambino, aveva visto la città soltanto nei film e rimase sconcertato nel trovarla così familiare, con le sue case colorate e originali, le colline, così unica e diversa da qualsiasi altro posto.

«È quasi impossibile credere che questa città si trovi nello stesso paese di Lakeside» disse.

Wednesday gli lanciò un’occhiataccia. Poi disse: «Non è così, infatti. San Francisco non si trova nello stesso paese di Lakeside più di quanto New Orleans non si trovi nello stesso paese che ospita New York, o Miami in quello di Minneapolis».

«Ah sì?»

«È fuor di dubbio. Magari condividono alcuni simboli culturali — i soldi, il governo federale, gli svaghi — e ovviamente il paese è lo stesso, ma quel che crea l’illusione che si tratti di un’unica nazione sono i dollari, il Tonight Show e i McDonald’s, nient’altro.» Si stavano avvicinando a un parco alla fine della strada. «Sii gentile con la signora che stiamo per incontrare. Ma non troppo.»

«Non preoccuparti.»

Entrarono nell’erba.

Una ragazzina, non poteva avere più di quattordici anni, con i capelli tinti di verde, arancio e rosa, rimase a fissarli mentre le passavano davanti. Sedeva accanto a un cane, un bastardo che per collare e guinzaglio aveva un pezzo di corda. Sembrava più affamata dell’animale. Il bastardo abbaiò allegro e scodinzolò.

Shadow le diede un dollaro. Lei lo guardò come se non lo riconoscesse. «Compra da mangiare al cane» le suggerì. Lei annuì e sorrise.

«Mettiamo le cose in chiaro» disse Wednesday, «devi essere molto cauto con la signora che stiamo per incontrare. Se le prendesse un capriccio per te sarebbe un guaio.»

«È la tua fidanzata?»

«No, nemmeno per tutti i giocattolini di plastica che producono in Cina» rispose Wednesday con garbo. La rabbia sembrava dissipata, o forse era solo stata messa da parte per il futuro. Shadow aveva il sospetto che fosse proprio la rabbia il motore di Wednesday.

Seduta sull’erba sotto un albero c’era una donna che aveva stesa davanti a sé una tovaglia di carta coperta di una gran quantità di contenitori di plastica.

Era… no, non era grassa, tutt’altro, era formosa, un’aggettivo che Shadow non aveva mai avuto occasione di usare. I capelli così chiari che sembravano bianchi erano legati in trecce biondo platino come facevano certe star del cinema muto; portava un rossetto cremisi e dimostrava un’età indefinibile tra i venticinque e i cinquant’anni.

Quando la raggiunsero si stava servendo da un piatto di uova in salsa piccante. Alzò gli occhi, appoggiò l’uovo che aveva scelto e si pulì la mano. «Ciao, vecchio impostore» disse a Wednesday con un sorriso, e lui le fece un profondo inchino con baciamano.

«Sei divina» disse.

«E come diavolo dovrei essere?» rispose lei con dolcezza. «Comunque sei un bugiardo. New Orleans è stata un errore: ho messo su almeno quindici chili. Giuro. Ho capito che me ne dovevo andare il giorno in cui ho cominciato a camminare ondeggiando. Adesso, ci crederesti che quando cammino mi si sfregano le cosce?» L’ultima frase era stata rivolta a Shadow che non avendo idea di cosa rispondere arrossì violentemente. La donna rise contenta. «Sta arrossendo! Wednesday, mio caro, mi hai portato un giovanotto che diventa rosso. Che carino da parte tua! Come si chiama?»

«Lui è Shadow» disse Wednesday che sembrava trovare divertente il suo disagio. «Shadow, di’ ciao a Easter.»

Shadow borbottò qualcosa che poteva suonare come un saluto e la donna gli sorrise di nuovo. Gli sembrava di essere abbagliato dalle luci intermittenti che i bracconieri usano per paralizzare i cervi prima di sparare. Dal punto in cui si trovava sentiva il profumo della sua pelle, una miscela di gelsomino, caprifoglio e latte dolce che lo stordiva.

«Allora, come vanno le cose?» chiese Wednesday.

La donna — Easter — rispose con una risata profonda e gioiosa, di gola. Come si faceva a non trovare adorabile una donna che rideva in quel modo? «Va tutto bene. E tu, vecchio lupo?»

«Speravo di poter contare sul tuo aiuto.»

«Perdi il tuo tempo.»

«Prima di liquidarmi prestami ascolto almeno un momento.»

«È inutile. Risparmia il fiato.»

La donna guardò Shadow. «Siediti, prego, e serviti quello che vuoi. Ecco qui un piatto, riempilo per bene. E tutto squisito. Uova, pollo arrosto, pollo al curry, insalata di pollo, e là c’è il lapin — coniglio, in effetti, freddo è delizioso, e in quella ciotola lo stufato di lepre — vuoi che te lo prepari io?» Cominciò a riempirgli un piatto di plastica e glielo porse. Poi guardò Wednesday. «Vuoi mangiare?»

«Ai tuoi ordini, mia cara» rispose lui.

«Tu» disse la donna «sei così pieno di merda che mi stupisco che gli occhi non ti diventino marroni.» Gli passò un piatto vuoto. «Serviti da solo.»

Il sole del pomeriggio alle sue spalle le aveva trasformato i capelli in un’aura color platino. «Shadow» disse addentando con gusto una coscia di pollo. «Che bel nome. Perché ti chiamano così?»

Shadow si passò la lingua sulle labbra secche. «Quand’ero bambino mia madre e io eravamo, cioè lei era, una specie di segretaria e lavorava per varie ambasciate, ci spostavamo da una città all’altra dell’Europa settentrionale. Poi si è ammalata ed è andata in pensione presto, così siamo tornati negli Stati Uniti. Non avevo mai niente da dire agli altri ragazzi, seguivo gli adulti in silenzio come un’ombra. Avevo bisogno di compagnia, credo. Non saprei. Ero un bambino minuto.»