Shadow stava studiando i verbali dell’inverno 1878 quando Chad Mulligan entrò, dopo aver bussato, con l’aria di un bambino che torni a casa con una pagella piena di brutti voti.
«Ainsel» disse. «Mike. Sono desolato. Personalmente mi piaci. Però questo non cambia le cose, capisci?»
Shadow rispose che capiva.
«Non posso far altro che arrestarti per violazione della libertà vigilata.» Gli lesse i suoi diritti, riempì alcuni moduli, gli prese le impronte digitali e lo accompagnò lungo il corridoio, fino al gruppo di celle che si trovavano dall’altra parte dell’edificio.
C’era un lungo banco, alcune porte su un lato della stanza, due celle e un’altra porta. Una delle celle era occupata da un uomo che dormiva sul pavimento di cemento sotto una coperta sottile. L’altra era vuota.
Dietro il banco una donna dall’aria assonnata con un’uniforme marrone guardava Jay Leno su un piccolo televisore portatile bianco. Lesse i documenti e firmò. Chad si trattenne a riempire altre carte. La donna venne da questa parte del banco, perquisì Shadow, gli prese tutto — portafogli, monete, chiavi, libro, orologio — e l’appoggiò sul banco, poi gli diede un sacchetto di plastica che conteneva la divisa arancione e gli disse di andare a cambiarsi nella cella aperta. Poteva tenersi i calzini e la biancheria intima. Shadow entrò nello stanzino, indossò la divisa carceraria e le pantofole. C’era una puzza tremenda. La casacca arancione che infilò dalla testa aveva sulla schiena una scritta a grandi lettere nere: LUMBER COUNTY JAIL.
Il gabinetto intasato era pieno fino all’orlo di un liquame scuro, feci liquide e piscio acre di bevitori di birra.
Quando uscì diede i suoi indumenti alla donna che li infilò in un sacco di plastica con tutti i suoi averi. Prima di consegnarle il portafogli le disse: «C’è tutta la mia vita, qui dentro». La donna lo prese e lo tranquillizzò dicendo che sarebbe stato al sicuro. Chiese a Chad di confermare e il poliziotto, alzando la testa dall’ultimo foglio, rispose che Liz diceva la verità, non avevano mai perso niente di proprietà dei detenuti.
Shadow era riuscito a nascondere nei calzini le quattro banconote da cento dollari che aveva sfilato dal portafogli, insieme al dollaro d’argento fatto sparire mentre si svuotava le tasche.
«Senti» disse uscendo dalla cella dove si era cambiato, «non potrei finire di leggere il libro?»
«Mi dispiace, Mike, le regole sono regole» rispose Chad.
Liz andò a riporre gli effetti personali di Shadow in uno sgabuzzino e Chad lo salutò dicendo che lo affidava all’ottimo agente Bute. Liz lo guardò con l’aria stanca, per niente lusingata. Chad uscì. Squillò il telefono e Liz — l’agente Bute — rispose. «Okay» disse. «Okay. Nessun problema. Okay. Nessun problema. Okay.» Riagganciò il ricevitore facendo una smorfia.
«Qualche problema?»
«Sì. Be’, non proprio. Una specie. Mandano qualcuno a prenderti da Milwaukee.»
«Perché dovrebbe essere un problema?»
«Perché devo tenerti qui dentro per tre ore con me» rispose la donna. «E quella cella» — indicò la più vicina alla porta, con l’uomo che dormiva sul pavimento — «è occupata. Il fermato è sotto controllo perché ha tentato il suicidio. Non posso metterti con lui. Però per tre ore non vale la pena di portarti nella prigione della contea.» Scosse la testa. «E non puoi certo stare lì dentro» — questa volta indicò la cella dove si era cambiato — «perché il cesso è rotto. La puzza è tremenda, vero?»
«Sì, insopportabile.»
«Lo farei per chiunque. Non vedo l’ora di andare nella nuova sede. Ieri abbiamo avuto una donna in quella cella, deve aver buttato dentro un assorbente. Le avverto sempre: ci sono i contenitori appositi. Gli assorbenti intasano lo scarico. Ogni stramaledetto assorbente giù per quel cesso costa alla contea cento dollari di idraulico. Quindi ti posso tenere qui con me ma devo metterti le manette. Oppure te ne stai nella cella puzzolente.» Lo guardò. «Scegli tu.»
«Sceglierò le manette, anche se non mi piacciono.»
L’agente Bute ne staccò un paio dalla cintura e batté una mano sulla fondina, come per ricordargli che era armata. «Metti le mani dietro la schiena.»
Le manette stringevano, Shadow aveva i polsi grandi. Poi gli mise i ceppi alle caviglie e lo fece sedere su una panca all’altra estremità del banco, contro il muro. «Adesso» disse, «se tu non dai fastidio a me io lascio tranquillo te.» Girò il televisore in modo che potesse vederlo anche lui.
«Grazie.»
«Quando avremo gli uffici nuovi» spiegò l’agente Bute «questi casini non succederanno più.»
Il Tonight Show terminò e cominciò un episodio di Cheers. Shadow non aveva l’abitudine di guardarlo, ma la puntata in cui la figlia di Coach arriva al bar l’aveva vista molte volte. Secondo lui si finisce per vedere sempre lo spesso episodio dei programmi che uno non segue, anno dopo anno; doveva essere una specie di legge cosmica.
L’agente Liz Bute si assopì davanti allo schermo. Non era profondamente addormentata, ma nemmeno sveglia, quindi non si accorse che a un certo punto i personaggi di Cheers avevano smesso di recitare le loro battute per mettersi a fissare Shadow.
Diane, la barista bionda che si crede un’intellettuale, fu la prima a rivolgergli la parola. «Shadow» disse, «eravamo così preoccupati per te. Sei scomparso dalla circolazione. Mi fa tanto piacere vederti, anche se in ceppi e couture penitenziaria.»
«Quello che dovresti fare, secondo me» pontificò quel seccatore di Cliff, «è di evadere durante la stagione della caccia, quando si vestono tutti d’arancione.»
Shadow rimase in silenzio.
«Ah, il gatto ti ha mangiato la lingua, a quanto pare» disse Diane. «Be’, ci hai fatto fare proprio un bell’inseguimento!»
Shadow distolse lo sguardo. L’agente Liz aveva cominciato a russare debolmente. La cameriera Carla sbottò: «Ehi, stronzo! Abbiamo interrotto la puntata per farti vedere qualcosa che te la farà fare addosso. Sei pronto?».
L’immagine vacillò e lo schermo diventò nero. La parola DIRETTA pulsava in bianco nell’angolo in basso a sinistra. Una sommessa voce femminile fuori quadro disse: «Non è ancora tardi per passare dalla parte dei vincitori. Comunque sei libero di restare dove sei. Essere americano significa poter scegliere. Questo è il miracolo americano. Libertà di fede significa essere liberi di credere nella cosa sbagliata, in fondo. Esattamente come la libertà di parola ti dà il diritto di tacere».
Adesso sullo schermo si vedeva l’immagine di una strada. La telecamera avanzò a sobbalzi come in un documentario girato con una cinepresa a spalla.
Un uomo con i capelli radi, l’abbronzatura e l’aria avvilita, riempì lo schermo. Era in piedi accanto a un muro e sorseggiava caffè da un bicchiere di plastica. Guardò in macchina e disse: «I terroristi si nascondono dietro definizioni astute come "combattenti per la libertà". Voi e io sappiamo che sono soltanto una banda di assassini».
Shadow riconobbe la voce. Una volta era stato dentro la testa di quell’uomo. Anche se dall’interno la voce del signor Town gli era sembrata diversa — più profonda, con più risonanza — era certo di non sbagliarsi.
Le telecamere si allontanarono mostrando Town davanti a un edificio di mattoni in una strada americana. Sopra la porta c’era un’insegna: una squadra a triangolo e un compasso intorno alla lettera G.
«Posizione» disse una voce fuori campo.
«Vediamo se dentro stanno girando» ribatté la voce femminile fuori quadro.
La parola DIRETTA continuava a lampeggiare nell’angolo sinistro dello schermo. Adesso si vedeva una piccola sala male illuminata. In fondo c’era un tavolo con due uomini seduti. Uno dei due dava la schiena alla telecamera che all’improvviso fece una strana zoomata. Per un momento i due andarono fuori fuoco, poi vennero ripresi in un’inquadratura perfetta. L’uomo che guardava in macchina si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro come un orso in gabbia. Era Wednesday. In un certo senso sembrava che si stesse divertendo. Quando vennero inquadrati entrò, con un pop, anche il sonoro.