Parcheggiarono anche loro e in quel momento un uomo con uniforme e berretto da autista uscì dal motel illuminato dai fari del pulmino. Si portò una mano alla visiera per salutarli, salì sulla Humvee e partì.
«Macchina grossa, cazzo piccolo» disse il signor Nancy.
«Credete che ci siano i letti, in questo posto?» chiese Shadow. «Non so da quanto non dormo in un letto. Qui sembra che aspettino solo la squadra dei demolitori.»
«Il motel appartiene ad alcuni cacciatori texani» spiegò il signor Nancy. «Ci vengono una volta all’anno non si sa a cacciare cosa. E impediscono che venga raso tutto al suolo.»
Scesero. Davanti al motel li aspettava una donna che Shadow non aveva mai visto. Era perfettamente truccata, perfettamente pettinata. Gli fece venire in mente quelle giornaliste dei programmi televisivi mattutini che passano il tempo sedute in studi che non assomigliano neanche lontanamente a un vero soggiorno.
«Lieta di conoscervi» disse. «Dunque… lei dev’essere Chernobog. Ho sentito molto parlare di lei. E lei è Anansi, sempre pronto a combinarne una, eh? Vecchio buontempone. E tu sei Shadow. Ci hai fatto fare una bella corsa, vero?» Gli strinse la mano con una presa decisa e lo guardò negli occhi. «Io sono Media. Molto piacere. Mi auguro di poter concludere la faccenda che ci attende nel modo migliore possibile.»
Le porte d’ingresso si spalancarono. «Non so perché, Toto» disse il ragazzo grasso che Shadow aveva conosciuto sulla limousine, «ma credo che questo non sia più il Kansas.»
«Invece lo è» ribatté il signor Nancy. «Anzi, oggi l’abbiamo attraversato praticamente tutto. Accidenti se è piatto.»
«Qui manca l’energia elettrica e non c’è acqua calda» disse il ragazzo grasso. «E voi tre avete bisogno di un bel bagno, senza offesa. Puzzate come se foste stati su quel pulmino per una settimana.»
«Non vedo la necessità di dire certe cose» intervenne la donna con garbo. «Siamo tra amici. Entrate, vi mostrerò dove si trovano le vostre stanze. Noi abbiamo occupato le prime quattro. Il vostro defunto amico è nella quinta. Tutte le altre sono vuote… potete scegliere quelle che preferite. Temo che non sia esattamente il Four Seasons, ma del resto che cosa lo è?»
Tenne aperta la porta per farli passare. Nell’ingresso c’era odore di muffa, polvere e decomposizione.
C’era anche un uomo, seduto nella penombra. «Avete fame?» chiese.
«Io ho sempre fame» rispose il signor Nancy.
«L’autista è andato a prendere hamburger per tutti» disse l’uomo. «Torna tra poco.» Alzò gli occhi. Faceva troppo buio per guardarsi in faccia, però disse ugualmente: «Tu sei Shadow, eh? Lo stronzo che ha ammazzato Woody e Stone?».
«No» rispose Shadow. «Li ha uccisi qualcun altro. Io ti conosco.» Era vero. Era stato dentro la sua testa. «Devi essere Town. Sei poi riuscito a scoparti la vedova di Wood?»
Town cadde dalla sedia. In un film sarebbe stata una scenetta divertente, nella vita reale fu soltanto una penosa goffaggine. Si rialzò di scatto e si avvicinò a Shadow che lo guardò dall’alto in basso. «Non cominciare niente se non sei pronto ad arrivare fino in fondo.»
Il signor Nancy gli mise una mano sul braccio. «La tregua, ricordi? Siamo nel centro.»
Town si allontanò e andò ad appoggiarsi al banco da cui prese tre chiavi. «In fondo al corridoio» disse. «Prendete.»
Consegnò le chiavi al signor Nancy e sparì tra le ombre del corridoio. Si sentì il rumore di una porta aperta e richiusa con un tonfo.
Nancy diede una chiave a Shadow e una a Chernobog. «Abbiamo una torcia, sul pulmino?» chiese Shadow.
«No» rispose Nancy. «È soltanto buio. Non devi aver paura del buio.»
«Non è il buio che mi fa paura, ma la gente che ci si nasconde.»
«Il buio è una bella cosa» disse Chernobog. Non sembrava avere alcuna difficoltà a vedere dove metteva i piedi e li condusse lungo il corridoio immerso nelle tenebre infilando le chiavi nelle toppe senza esitazioni. «Io sono alla dieci» disse. E poi aggiunse: «Media. Mi sembra di aver già sentito questo nome. Non è la donna che ha ucciso i figli?».
«La donna è un’altra» rispose il signor Nancy. «Il movente lo stesso.»
Nancy era nella stanza numero otto e Shadow di fronte, alla nove. La camera puzzava di umidità, era polverosa e abbandonata. C’era una rete e un materasso senza lenzuola. La luce dell’imbrunire che entrava dalla finestra la rischiarava debolmente. Shadow sedette sul materasso, si tolse le scarpe e si sdraiò. Aveva guidato troppo, negli ultimi giorni.
Forse dormì.
Stava camminando.
Un vento freddo gli incollava addosso i vestiti. I minuscoli fiocchi di neve erano quasi cristalli in polvere agitati dal vento.
C’erano alberi spogli, invernali. C’erano alte montagne su ogni lato. Era un tardo pomeriggio d’inverno: cielo e neve avevano raggiunto la stessa tonalità di rosso profondo. Più avanti — stabilire le distanze risultava impossibile in quella luce - guizzavano gialle e arancioni le fiamme di un falò.
Un lupo grigio lo precedeva lentamente.
Shadow si fermò. Anche il lupo sì fermò, e si voltò ad aspettarlo. Aveva un occhio che luccicava, di un verde giallastro. Shadow scrollò le spalle e ripartì in direzione delle fiamme. Il lupo riprese il suo lento incedere.
Il falò bruciava in un boschetto. Dovevano essere almeno duecento alberi, in due filari. Appese agli alberi c’erano delle sagome, e in fondo un edificio che somigliava vagamente a una barca capovolta. Era di legno, coperta di creature e facce lignee — draghi, grifi, troll e cinghiali - che danzavano al bagliore incerto delle fiamme.
Le fiamme erano talmente alte che Shadow non riusciva ad avvicinarsi al falò. Il lupo lo aggirò piano piano.
Al suo posto, sull’altro lato, spuntò un uomo che si appoggiava a un lungo bastone.
«Siamo a Uppsala, in Svezia» gli disse con una voce che gli era familiare. «Un migliaio di anni fa.»
«Wednesday?»
L’uomo continuò a parlare come se Shadow non esistesse. «Ogni anno, prima, e poi quando cominciò la decadenza e divennero indolenti ogni nove, venivano qui a fare i sacrifici. Il sacrificio dei nove. Ogni giorno, per nove giorni, appendevano nove animali agli alberi del boschetto. Uno degli animali era sempre un uomo.»
Si allontanò dal fuoco e Shadow lo seguì in direzione degli alberi. Avvicinandosi vide che le sagome appese ai rami si delineavano: gambe, occhi, lingue sporgenti e teste. Shadow scosse il capo: c’era qualcosa di minacciosamente triste in un toro appeso per il collo, uno spettacolo talmente surreale da risultare ridicolo. Passò davanti a un cervo, un cane lupo, un orso bruno e un baio con la criniera bianca, poco più grande di un pony. Il cane era ancora vivo: a intervalli di pochi secondi scalciava spasmodicamente e, con la corda intorno al collo, emetteva un fievole guaito.
L’uomo che Shadow stava seguendo impugnò il lungo bastone, che in realtà era una lancia, ma se ne rese conto solo quando la vide in movimento, e aprì la pancia del cane con un colpo secco, dall’alto in basso. I visceri fumanti si rovesciarono sulla neve. «Dedico questa morte a Odino» disse l’uomo formalmente.
«Non è che un gesto» spiegò voltandosi verso Shadow. «Ma i gesti significano tutto. La morte di un cane simboleggia la morte di tutti i cani. Mi davano nove uomini, però rappresentavano tutta l’umanità, tutto il sangue, tutto il potere. Non durò. Un giorno il sangue smise di scorrere. La fede senza il sacrificio basta fino a un certo punto. Deve scorrere il sangue.»