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Che per raggiungerlo devo, non so come, staccare la mia consapevolezza cosciente dal tempo 1.

Oppure il mio subconscio? È quello che mi tiene prigioniero? Il condizionamento interiore di tutta una vita?

Se è così, ho qualcosa di preciso con cui lavorare. Ricorrendo ai principi della psicocibernetica, posso “riprogrammarmi” e convincermi di esistere non nel 1971, ma nel 1896.

L’hotel mi aiuterà, perché fra queste mura esiste ancora moltissimo del 1896.

Il posto è perfetto. Il metodo, sicuro.

Funzionerà! So che funzionerà!

Ho dedicato tante ore a questo libro. Ore preziose, senz’altro. Però è strano che, per lunghi periodi di tempo, io abbia del tutto dimenticato i motivi che mi hanno spinto a studiarlo.

Ma adesso prendo la fotografia dal comodino e guardo di nuovo il suo volto.

La mia splendida Elise.

Il mio amore.

Presto sarò con te. Lo giuro.

Ho appena chiamato il servizio in camera per la cena. Zuppa di verdure. Agnello arrosto. Insalata mista. Dessert molto abbondante. Caffè. E finirò il Bordeaux.

Me ne sto sdraiato a sfogliare la sua biografia. Tutto ciò che ho letto si insinua nel mio subconscio, lo modifica. Domani, mi concentrerò sull’idea di modificarlo in maniera completa.

Ho appena scoperto qualcosa di affascinante. In appendice al libro c’è un elenco che non avevo ancora visto. Una lista dei libri che lei ha letto.

Uno dei libri è Esperimento col tempo di J.W. Dunne.

Deve averlo letto dopo il 1896, perché è uscito dopo quella data.

Chissà perché lo ha letto.

Le sette e diciannove del pomeriggio. Ho appena mangiato. A stomaco pieno, mi sento soddisfatto. Rassicurato.

Sono sdraiato e penso a Bob.

È sempre stato così dolce con me. Così buono.

Non è stato molto bello lasciare un semplice biglietto e sparire. So che sarà preoccupato per me. Perché non ci ho pensato prima?

Perché non gli ho telefonato subito, per dirgli che sto bene? Forse è già frenetico. Forse ha chiamato la polizia, tutti gli ospedali.

Sarà meglio fargli sapere che sto bene, prima del mio grande viaggio.

Mary?

Ciao.

Oh, non troppo lontano.

Sì. Sto benissimo. C’è Bob?

Ciao, Bob.

Be’… preferirei non farti sapere se…

È solo una cosa mia, Bob. Non c’entra niente con…

Dovevo farlo, Bob. Credevo di averlo spiegato nel biglietto.

Be’, in sostanza è tutto qui. Viaggerò sul serio.

Andrò dove voglio. Insomma…

Sto bene, Bob. Sto…

No, non te lo voglio dire. Cerca di capire. Sto bene. Voglio solo fare questa cosa a modo mio.

Senti, sto benissimo. Ho chiamato per dirtelo. Così non ti preoccupi.

Be’, lascia perdere. Non ce n’è bisogno. Sto bene.

Sì. Non so dirti perché. Però sto bene.

No, Bob. Niente. Se mi occorrerà qualcosa, te lo farò sapere.

Non troppo lontano. Senti, adesso devo…

No, Bob, non posso. Non voglio…

Perché ho…

Lasciami fare le cose a modo mio, okay?

Bob, Cristo santissimo!

Sto guardando Carol Burnett.

È divertente.

Anche Harvey Korman.

Divertenti.

Volete sapere perché li guardo, gente? Non potete sentire quello che dico, ma ve lo dirò lo stesso. Perché sto guardando Carol Burnett, invece di mettermi a dormire e prepararmi per l’assalto al tempo di domani?

Ve lo dirò.

Perché ho perso la mia grinta.

Non so quando. Probabilmente è cominciato mentre parlavo con Bob. È peggiorato riascoltando la mia voce che parlava con lui. Non conosco l’esatto momento in cui tutto è svanito.

So solo che è svanito.

All’inizio, non potevo crederci. Ho pensato che me lo stessi immaginando. Ho aspettato che il vuoto si riempisse. Ma non è successo, e mi sono arrabbiato. Poi mi sono spaventato.

Poi ho capito.

È finita.

Io che viaggio nel tempo?

Gesù, dovrei stare Ai confini della realtà, non in questo hotel. Sono un idiota. Questo hotel non è un’isola del passato. È una costruzione che invecchia sulla spiaggia. Ed Elise McKenna?

Un’attrice morta diciotto anni fa. Senza drammi. Di vecchiaia.

Niente di drammatico, di sensazionale, le è accaduto settantacinque anni fa. La sua personalità è semplicemente cambiata, tutto qui.

Forse è andata a letto con Robinson. O con un inserviente dell’hotel. O con…

Oh, zitto!

Lascia perdere, Collier. Fregatene, sbattitene, ignora, azzera. Solo un cretino continuerebbe su questa strada.

Le undici e trentuno di sera. Dopo la fine dello show di Carol Burnett, sono sceso all’edicola-tabaccheria. Ho comperato il “San Diego Union” e il “Los Angeles Times”. Seduto nella hall, li ho letti tutti e due da cima a fondo, testardamente, come un alcolizzato a secco che debba rifare il pieno. Ho reimmesso nel mio sistema il veleno del 1971. Per la voglia rabbiosa di mettere a tacere tutto ciò che ho provato prima.

Ho lasciato i giornali sul divano della hall. Sono andato nel salone vittoriano. Ho bevuto un Bloody Mary. Ho firmato il conto del bar. Mi sono alzato e sono sceso alla galleria. Sono entrato nella sala giochi e ho fatto una partita di baseball, una partita di quiz col computer, una partita di golf, una partita al flipper. La sala era deserta, le macchine emettevano un enorme frastuono, e io avrei voluto fracassarle tutte, dalla prima all’ultima, con un martello.

Sono tornato su. Gente in abito da sera. Grande evento nella sala da ballo: un convegno sul problema degli incidenti stradali. Avrei voluto fermare tutti. Raccontare come ci si sente quando il proprio spirito ha una collisione frontale con la realtà.

Un altro Bloody Mary nel salone vittoriano. La coppia del séparé accanto litigava. Li ho invidiati; erano vivi. Io me ne stavo lì svuotato, eviscerato, sventrato, e squartato. Ho bevuto un terzo Bloody Mary. Ho firmato il conto: stanza 527, Richard Collier. Sono salito con l’intenzione di buttarmi giù dalla finestra. Non ne ho avuto il fegato. Mi sono messo a guardare la tivù.

Non mi sono mai sentito così vuoto in vita mia. Così totalmente privo di scopo. Con uno stato d’animo del genere, si muore. La voglia di vivere è tutto. Quando scompare quella, scompare anche il corpo.

Sono sospeso sul nulla. Come il personaggio di un cartone animato che da un dirupo balza nel vuoto ma continua a correre per un po’ in aria, prima di accorgersene.

Io me ne sono accorto.

Adesso comincio a cadere.

18 novembre 1971

Le dieci e dodici del mattino. Queste sono le ultime parole che scriverò all’hotel. Fra poco parto per Denver. Non ho voglia di scrivere. Però non c’è motivo di rinunciare al mio libro solo perché ho rinunciato a un’illusione idiota.

Sono seduto allo scrittoio. Bevo succo d’arancia, caffè, e mangio una tartina alla marmellata di mirtilli: la mia ultima colazione all’europea prima di partire.

La natura, accidenti a lei, è riuscita a riflettere il mio stato d’animo. Per la prima volta da che sono arrivato qui, non c’è sole; c’è grigio, freddo, e vento. Sopra l’oceano verdastro, agitato, un cumulo di nubi nere. Adesso vedo che probabilmente a Point Loma c’è un faro. C’è una luce che lampeggia in continuazione: il raggio del faro, immagino.

Vedo un uomo che fa jogging in riva all’acqua. Un elicottero militare, scuro, ha appena sorvolato la linea costiera come un’enorme pulce d’acqua. Il parcheggio sotto è invaso da foglie morte, gialle. Il vento ne spazza via alcune con tanta forza da farle sembrare topolini chiari che corrono sull’asfalto. Un uomo calvo, in tuta verde, si aggira nel parcheggio su una bicicletta rossa. In alto c’è un gabbiano; svanisce inseguendo le correnti d’aria.